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RIVAROLO CANAVESE - La guerra è una severa lezione di storia che non abbiamo ancora imparato. Lo sa, purtroppo, la popolazione della striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini costretti quotidianamente a convivere con la devastazione delle bombe, con nel cuore la paura di un'improvvisa esplosione fatale e nelle orecchie il ronzio incessante dei droni che sorvolano ad ogni ora le loro teste. Non c’è più un luogo sicuro, come spiega la giovane rivarolese, Martina Marchiò, coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere.

Quanto sei stata a Gaza? «Sono stata sei settimane a Gaza, da metà a aprile a fine maggio – racconta Martina Marchiò – Ho lavorato sia a Rafah che nella zona più centrale di Deir al-Balah e Khan Yunis, dove Medici Senza Frontiere supporta due ospedali: uno è quello di Nasser e l’altro è quello di Al-Aqsa, oltre a diversi ambulatori sia a Rafah che nella zona centrale».

Cosa vi siete trovati di fronte appena arrivati? «Appena arrivata mi sono trovata di fronte a qualcosa di devastante – aggiunge l’infermiera canavesana – Le tende invadevano lo spazio intorno a noi. Le persone, soprattutto dopo il 6 di maggio quando è iniziata l’invasione via terra di Rafah, si sono spostate in massa verso la zona più costiera di Khan Yunis e Rafah o quella più centrale in cerca di un luogo sicuro. Quindi, c’è stato un movimento massivo della popolazione con carretti trainati da asinelli, automobili e furgoncini di fortuna. C’erano uomini, donne e bambini che hanno caricato quanto possibile sui loro mezzi di trasporto. Le tende hanno invaso tantissime aree. All’interno di ognuna ora ci sono più di 40°. In alcune di esse ci vivono più di 30 persone. Nella zona costiera non ci sono servizi igienici o legati all’acqua. E’ tutto molto complicato. I bombardamenti e le esplosioni erano costanti, quando ero lì. Sia di giorno che di notte. Anche in questo momento continuano in questa maniera, pure a nord di Deir al-Balah, come Nuseirat, di cui si è parlato tanto nelle scorse settimane».

«Abbiamo fatto quello che potevamo. Ricordatevi di noi». Sono le parole che abbiamo visto scritte in una foto sulla lavagna chirurgica di un ospedale a Gaza. Qual è ora la situazione a Rafah? «E’ difficile da accettare, ma a Gaza non c’è più un luogo sicuro – sottolinea Martina – Anche le zone considerate “safe”, nelle quali la popolazione viene invitata a spostarsi, in realtà vengono attaccate via cielo e via terra. La gente non sa più dove andare, schiacciata su più fronti in uno spazio sempre più ridotto che non ci può accogliere tutti. La situazione è molto tesa. Rafah è praticamente caduta. Non ci sono più ospedali funzionanti se non quelli da campo delle organizzazioni umanitarie. Sono sulla spiaggia e non sono abbastanza. Il Philadelphi Corridor, zona cuscinetto lungo il confine con l’Egitto, è stata presa dall’esercito israeliano fino a raggiungere la spiaggia. Questo fa sì che Rafah sia di fatto abbandonata a sè stessa. Molte zone della città sono inaccessibili, nonostante ci siano ancora dei corpi per la strada. La popolazione per accedere ad un ospedale deve raggiungere quello di Nasser a Khan Yunis ed è terribile. L’ospedale di Al-Aqsa, colonna portante del centro della striscia, lavora tre volte la sua capacità e continua a ricevere un afflusso pesante e continuativo di feriti. I pazienti si ritrovano ad essere stabilizzati anche per terra. Molti di loro arrivano in condizioni super critiche e non sopravvivono, perché le sale operatorie sono oberate e non sono sufficienti. Gli obitori esplodono di corpi. Il sistema di triage è stato semplificato, ma non basta. I pazienti che camminano sono considerati codici “verdi” e vengono mandati negli ambulatori. E’ difficile, i bisogni superano di gran lunga le risorse».

«Il confine con l’Egitto, il valico di Rafah, è ancora chiuso – puntualizza la referente medica di Msf – Gli aiuti umanitari non stanno entrando. Questo sta avendo un impatto devastante sulla popolazione di Gaza e sulle attività medico sanitarie. Bisogna andare verso un cessate il fuoco immediato e duraturo per permettere alla popolazione di stabilizzarsi e ricevere l’assistenza medico sanitaria necessaria in sicurezza. Bisogna riaprire il valico di Rafah. C’è bisogno di carburante per far girare i generatori, che permettono agli ospedali e alle cliniche di funzionare. Anche Al-Aqsa, nelle scorse settimane, si è trovato con delle ore di black-out, in cui i medici hanno dovuto ventilare manualmente dei pazienti che erano in rianimazione, altrimenti sarebbero morti. Il carburante serve inoltre per i desalinizzatori dell’acqua per garantirla pulita e per tutti gli spostamenti delle organizzazioni umanitarie nella striscia di Gaza. Devono entrare pure le medicine: lo stock non è infinito. E poi cibo e acqua, ovviamente fondamentali».
 
Questa terribile guerra ha spezzato tante vite. Tuttavia, voi ne avete salvate altrettante: soprattutto, bambini e giovani. C’è un momento, un ricordo che porterai sempre nel cuore? «Siamo riusciti a salvare alcune vite – spiega Martina – Sicuramente, c’è tutta una fetta di esistenze, che, seppure non spezzate, sono state cambiate per sempre. Sto parlando dei pazienti che sono stati amputati. Ci sono tanti bambini, che ho visto arrivare nei nostri ambulatori senza più un braccio o una gamba. Sono sopravvissuti, ma la loro vita è cambiata per sempre. Al momento, essere disabili a Gaza è qualcosa di impensabile. Mi ricordo di aver visto questo ragazzo sulla carrozzina che cercava di spingersi sulla sabbia e con la sedia a rotelle rimaneva incagliato. Per fortuna, due giovani l’hanno notato e aiutato a raggiungere la sua tenda che si trovava su delle macerie. Questa è un’immagine che mi ha toccato molto. C’è ancora tanta fratellanza, tanta compassione e solidarietà verso il prossimo. E’ qualcosa di forte che resiste nonostante tutto».

L’hashtag «Occhi puntati su Rafah» è diventato virale, ma di fatto una reale tregua sembra ancora una chimera. Cosa dovrebbe esserci di prioritario, insieme al cessate il fuoco, in cima all’agenda di lavoro dei grandi della Terra, tra l’altro riuniti in questi giorni in Puglia, per aiutare la popolazione di Gaza? «L’hashtag “All yes on Rafah” – conclude Martina Marchiò – è stato qualcosa di virale. E’ stato importante per risvegliare un attimo le coscienze che si erano assopite. Sicuramente, deve essere qualcosa non di puntuale, ma di sempre presente. Gli occhi del mondo devono rimare su Gaza più che mai, perché la situazione sta peggiorando e degenerando ogni giorno di più. Questa guerra deve finire. Il cessate il fuoco deve arrivare e l’apertura del valico di Rafah deve accadere. Quello che possiamo fare è di continuare a parlarne, a raccontare, sensibilizzare e donare alle organizzazioni che sono in prima linea. Continuare ad insistere su questo tasto. Poi certo sono i potenti della Terra che devono prendere le decisioni dall’alto. Come Medici Senza Frontiere abbiamo scritto una lettera alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, spingendo molto sul cessate il fuoco, sul valico di Rafah e su altri punti. Stiamo ancora attendendo una risposta, speriamo arrivi presto».