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L’11 settembre 2001, alle 8:46 ora della costa est americana, la storia del mondo è cambiata per sempre. Il primo dei due Boeing 767 si schianta sulla Torre Nord del World Trade Center di New York. Il secondo colpisce la Torre Sud alle 9:03. Un terzo aereo impatta alle 9:37 la facciata ovest del Pentagono, a Washington, mentre un quarto aereo, il volo United 93, alle 10:03 precipita in un campo in Pennsylvania, pare a causa della rivolta dei passeggeri, consapevoli di cosa stava accedendo nel resto del loro Paese.

Il mondo si ferma come non era mai successo prima, letteralmente. È il più grande attacco mai subito dagli Stati Uniti sul proprio territorio, costato la vita a 2.996 persone, a cui si aggiungono 6.400 feriti e una scia di morti per i gas e polveri inalate che hanno disseminato gli anni successivi.

Una ferita aperta nel cuore dell’America, che malgrado si sia fatta giustizia uccidendo Osama Bin Laden, è costretta a convivere con una sconfitta immensa, pari solo a quella di Pearl Harbour.

Proprio in questi giorni, a ridosso delle commemorazioni che ogni anno rigano di lacrime il Paese, le autorità hanno annunciato di aver riconosciuto altre due vittime grazie a sofisticate tecniche di sequenziamento del Dna: sono un uomo e una donna, numero 1.648 e 1.649, e per volontà delle famiglie i nomi non sono stati rivelati.

Sono annunci che destano sempre grande commozione, perché malgrado siano passati più di 20 anni non è ancora stato possibile dare un nome a circa 1.000 resti, il 40% delle 2.753 persone che quel giorno si ritiene siano morte nel crollo delle due Torri.

Un evento epocale, quello dell’11 settembre 2001, destinato a segnare i libri di storia, così tanto che intorno a quel giorno sono fiorite perfino storie e teorie psicanalitiche. Una delle più conosciute è iniziata poche ore dopo l’attentato dell’11 settembre, quando un gruppo di ricercatori di psicologia e neurologia di 15 diverse università americane ha raccolto i ricordi a caldo di circa 3mila persone a cui era stato chiesto dove fossero e cosa stavano facendo con esattezza quel giorno impresso nella memoria del mondo intero. Si trattava di un esperimento su grande scala che rientrava in uno studio sui fattori che influenzano la memoria, l’archivio dei ricordi.

Un anno dopo, le medesime domande furono sottoposte alle stesse persone, ma incredibilmente il 40% degli intervistati aveva ricordi diversi rispetto a quelli raccontati soltanto un anno prima. Nel 2015, oltre 10 anni dopo, gli stessi volontari furono nuovamente convocati, alzando la percentuale di coloro che ricordavano dettagli diversi rispetto a quelli raccontati a poche ore di distanza dall’11 settembre.

Era ciò che lo studio cercava di dimostrare: la memoria umana è un archivio estremamente fallibile. Soprattutto in presenza di eventi traumatici e troppo dolorosi, tende a rimuovere il ricordo istantaneo e non accetta sequenze frammentate. E là dove non arrivano i ricordi, ci pensa la mente a sostituire ciò che manca con invenzioni che abbiano un senso. Come in un film in cui in fase di montaggio sia necessario trovare scene diverse pur di arrivare alla fine.

Forse il caso più eclatante legato alla memoria di quel giorno drammatico è quello di Michael Regan, vigile del fuoco di new York ricordato per aver organizzato decine di funerali e fornito aiuti concreti alle famiglie dei colleghi defunti. Intervistato dal “New York Times”, Regan ha raccontato di aver vissuto anni con un senso di colpa che gli ha tolto il sonno: non aver avuto il coraggio di seguire i suoi colleghi all’interno delle torri nei minuti precedenti al crollo. Furono alcuni suoi colleghi a rammentargli che nelle Torri era entrato di persona più volte, uscendone con decine di feriti accompagnati fino alle ambulanze. Uno psicologo ha spiegato il mistero: era un blocco deciso dalla mente per riuscire a gestire il dolore per la morte di decine di suoi colleghi, molti dei quali amici fraterni.

“Quando leggo o sento la frase simbolo degli attentati dell’11 settembre, “We will never forget”, mi chiedo “Cosa non dimenticheremo mai?” - ha commentato Charles Stone, docente di psicologia al John Jay College of Criminal Justice dell’Università di New York - la risposta più precisa è: non dimenticheremo mai che è successo. Ma il resto, i dettagli, sarà dimenticato”.