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Prima del 7 luglio 1985, Boris Becker era soltanto una giovane e bella promessa del tennis: un ragazzone nato e cresciuto nelle campagne tedesche con i capelli rossi e la faccia pallida di cui sicuramente si sarebbe sentito parlare. Ma fra qualche anno.

Il futuro invece era lì, quella domenica di sole, sul campo sacro del centrale di Wimbledon, dove l’attesa in quei giorni era tutta per le stelle della racchetta di allora: John McEnroe, Ivan Lendl, Jimmy Connors e Mats Wilander. Nessuno nominava Becker, fin quando lui manda fuori uno dopo l’altro gli avversari che un tabellone non impossibile gli mette davanti, e a 17 anni finisce dritto in finale, qualcosa che sarebbe bastato a farne un record ancora oggi imbattuto. Ma gli dei quel giorno posano gli occhi sul centrale, per assistere ad una mattanza data per certa dai bookmaker: da una parte Kevin Curren, un altro outsider di quell’edizione in forma strepitosa, e dall’altra parte del campo il ragazzino tedesco con la valigia già pronta per tornare nelle campagne del Baden-Württemberg.

Non era scritto così: Boris Becker prende in mano l’incontro mostrando al mondo che di ragazzini in campo quel giorno non ce n’è. Vince il primo set, perde il secondo al tie-break e si riprende il terzo per 7-6, con una sicurezza impressionante. Non era che il primo capitolo della leggenda di “Boom boom Becker”.

Era nato nel novembre del 1967 a Leimen, una delle città toccate da Bertha Benz nel 1888, in quello che è considerato il primo viaggio in automobile della storia. Figlio di un architetto appassionato di tennis che lo iscrive ad un corso del suo sport preferito a soli cinque anni. A 8 Boris vince il suo primo torneo, e si lascia conquistare dal tennis: arriva a completare a fatica le medie, poi con un benestare particolare rilasciato dal ministero della pubblica istruzione per meriti agonistici, abbandona gli studi per puntare dritto al professionismo. Ci riesce nel 1984, affiancato da Ion Tiriac e Guenther Bosch, ex allenatore della squadra tedesca, entrando al numero 720. Neanche un anno dopo al 25esimo posto, e grazie alla leggendaria insalatiera di Wimbledon svetta all’ottavo. Il mondo è a suoi piedi e Boris lo accontenta bissando l’anno dopo Wimbledon e triplicando il carnet con la vittoria del 1989.

Ma iniziano i passi falsi. Lascia la Germania per trasferirsi a Montecarlo, noto paradiso fiscale per centinaia di sportivi, e la finanza tedesca accende i riflettori fiutando una clamorosa evasione fiscale. L’inchiesta con tanto di perquisizione si conclude con una condanna e la cella appena sfiorata grazie alla condizionale. Boris – molto più fragile nella vita di quanto lo fosse sui campi da tennis – inizia a sgretolarsi, perde fiducia e soprattutto non gli basta più il leggendario modo di battere al fulmicotone che tanti avversari aveva messo in crisi. Annuncia il matrimonio con Barbara Feltus, una bellissima ragazza di colore, accusando i suoi connazionali di razzismo. È il passaggio finale, quello che lo mette solo contro tutti.

Chiude la carriera sul campo di Wimbledon, esattamente dov’era iniziata, uscendo al quarto turno. È il 1999, a 31 anni, saluta il tennis con 49 titoli vinti in singolare, 7 dei quali del Grande Slam, e 15 in doppio. È stato numero uno al mondo per 12 settimane, guadagnando più di 25 milioni di dollari.

Ma la vita fuori dai campi non è gentile. Nelle pagine di “Der Spieler” (il giocatore), la sua autobiografia, confessa la dipendenza da analgesici e alcol, e nel 2017 un tribunale di Londra dichiara il fallimento di una delle sue aziende. Per ripagare i debiti Boris è costretto a vendere tutto, compresi i trofei vinti, ma questa volta nulla riesce a impedirgli due anni di galera, ridotti poi a 7 mesi. “Là dentro non sei nessuno, me ne sono subito reso conto. Sei solo un numero, nessuno mi ha mai chiamato Boris. A loro non importava chi fossi – confida in un’intervista poco dopo la scarcerazione - ho perso parecchio peso e sono andato a letto con la fame, non mi era mai capitato. È stata una lezione dura, che mi ha fatto male e anche bene: ho avuto tempo per riflettere e ho riconosciuto gli errori commessi. Non ho sempre avuto le persone giuste intorno a me, sono stato mal consigliato”.

Alla parabola esistenziale di Boris Becker è dedicato “The World vs. Boris Becker”, docuserie in due parti trasmessa da Apple Tv+ diretta dal premio Oscar Alex Gibney.