C’è qualcosa di arcaico nella boxe: nasce insieme all’uomo, quando capisce che chiudere le mani a pugno può essere un modo per difendersi dal prossimo e da una natura dura e selvaggia. Le prime prove del combattimento a mani nude si fanno risalire al II millennio a.C., e qualcosa di molto simile all’odierno pugilato era incluso fra le discipline dei giochi olimpici del 688 a.C. Per le regole bisogna aspettare il 1867, quando a scriverle è il Marchese di Queensberry, che introduce le prime tre categorie (massimi, medi e leggeri) a cui seguiranno altre, il conteggio dei 10 secondi prima del KO e l’obbligo dell’uso dei guantoni. Non serviva altro per salire sul ring e affrontare i tre minuti di ogni round in cui serviva buttare dentro passione, forza, sudore e fatica.
Nel tempo, la boxe si è guadagnata la fama di sport di riscatto per via di atleti dal passato turbolento che hanno trovato la redenzione e costruito una carriera, uno su tutti: Mike Tyson. Uno sport per altro spesso contestato e cancellato dalle programmazioni televisive perché considerato troppo violento, ma al contrario amatissimo dal cinema, a cominciare dalla saga più celebre di tutte, quella di “Rocky Balboa”, personaggio di fantasia che proprio sul ring trova l’opportunità che il destino gli aveva sempre negato.
Ma la boxe, il pugilato o comunque lo si voglia chiamare, è in crisi da tempo, e le Olimpiadi di Parigi erano forse l’ultimo appello prima di un finale amaro che la esclude totalmente dai prossimi giochi olimpici di Los Angeles 2028.
Uno degli sport più nobili e antichi della storia dell’umanità era stato incluso per la prima volta alle Olimpiadi di Saint Louis del 1904, ma nel tempo troppi maneggi, verdetti al limite dello scandalo e incompetenza diffusa, dopo 124 anni l’hanno condannato all’oblio. Una decisione confermata dal CIO la scorsa primavera, e resa ancora più certa dall’esclusione della boxe maschile dai giochi parigini, come se quella femminile fosse esente dalle critiche. Lo dimostra il caso dell’algerina Imane Khelif e dell’italiana Angela Carini, finito tra polemiche, accuse e campagne diffamatorie.
Non è il primo caso. Ancora riecheggia il clamoroso episodio delle Olimpiadi di Seul del 1988, quando l’idolo locale Park Si-Hun finisce direttamente in finale dopo due arbitraggi scandalosi, il primo ai danni dell’italiano Vincenzo Nardiello. La federazione tenta di parare il colpo cambiando le regole passando dai cartellini dei giudici alle macchine segnacolpi, ma anche questo lascia ampio spazio alle manipolazioni. Nel 2013 si torna al vecchio sistema, e tutto ricomincia da capo: nel 2013, alle Olimpiadi di Rio, CIO tenta di parare lo scandalo che monta da ogni parte del mondo radiando arbitri e giudici in blocco. Era l’inizio di una fine che si è consumata lentamente, senza che nessuno fosse in grado di mettere la parola fine alle pastette per ridare onore ad una disciplina che insegna a controllare la violenza, e non il contrario.