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Più che ai consumatori, il prossimo avviso è diretto alle aziende che producono cosmetici anti-age: esagerare con le percentuali di successo vantate nelle pubblicità, significa diventare poco credibili.

In pratica, se la pubblicità è l’anima del commercio, quella esagerata è quasi certamente l’anima dell’insuccesso. Inutile “sparare” il 100% garantito dopo pochi trattamenti, perché i consumatori ormai hanno imparato a diffidare dalle promesse che rendono tutto troppo facile per essere vero.

Lo svela, forse per la prima volta in modo ufficiale, un recente sondaggio realizzato da “Citruslabs”, azienda americana specializzata nei test sui cosmetici, che ha chiesto ad oltre 1000 consumatori abituali di prodotti di cosmetica qual è la loro percezione di fronte ai claim pubblicitari più diffusi. Quelli, per capirci, che promettono risultati certi senza neanche ammettere la possibilità di minime percentuali di insuccesso: il solito “100% di chi lo usa nota un netto miglioramento”, che poi sia l’elasticità della pelle, dei capelli, delle rughe o di qualsiasi altro inestetismo non importa, perché tanto la promessa non cambia.

Bene, di fronte a certe garanzie impossibili, il 69,16% degli interpellati si sforza di dare fiducia ai prodotti dai risultati certi, mentre l’84,81% tende a fidarsi di più quando la percentuale scende all’80%. Per finire con l’88,57% di quanti tendono a fidarsi se le percentuali di successo diventano più “umane”, ovvero si avvicinano al 70%. Che significa lasciare un 30% alla possibilità che il prodotto appena acquistato non serva assolutamente a nulla.

A credere meno nei miracolosi effetti della cosmetica sono i più giovani, la Gen Z: il 91% si fida di affermazioni quando sono supportate da ricerche di laboratorio, contro un 71% che tende a fidarsi anche quando si tratta di cifre probabilmente create ad arte dagli uffici marketing.

Per sopperire alla mancanza di verifiche, spesso i marchi della cosmetica ricorrono a termini nuovi che servono a mascherare la realtà, creando un fenomeno assai tipico della cosmetologica, definito “science-washing”, ovvero un linguaggio che di tecnico-scientifico ha solo il sapore, ma di concreto non ha nulla. Per essere a posto con la coscienza ma soprattutto con le regole sui messaggi pubblicitari, è sufficiente aggiungere al 100% un minuscolo asterisco che riporti alla verità, nascosta al fondo a caratteri minuscoli: si tratta di percentuali riferite ad un campione di 20 soggetti, a volte anche meno.

Ricorrere a test scientifici affidabili, oltre ad un investimento economico rappresenta una perdita di tempo che spesso le aziende non possono permettersi per questioni di mercato, perché oltre ad una serie di questionari a cui vengono sottoposti campioni di volontari in numero sufficiente da diventare significativo, sono necessarie analisi approfondite di dermatologi che possono avere un’idea dell’efficacia solo dopo aver testato i prodotti per un tempo sufficiente.

“Negli studi clinici reali, i miglioramenti che vanno dal 10 al 30% sono considerati risultati buoni, e solo i migliori marchi raggiungono percentuali tra il 20 ed il 30%”, spiega Susanne Mitschke, co-founder di Citruslabs. Tutto il resto è fuffa.