Una “State dinner”, la cena di Stato della Casa Bianca, non è mai soltanto una cenetta fra il Presidente in carica e un ristretto numero di persone affamate, è piuttosto un “forum ai massimi livelli sospeso fra politica e intrattenimento”. Così lo definisce Alex Prud’homme, scrittore americano esperto in questioni presidenziali nelle pagine di “Dinner with the President: Dinner with the President: Food, Politics and a History of Breaking Bread at the White House”, un libro uscito di recente di cui attende la versione italiana a breve.
Tutto parte da un concetto di base: “Il Presidente è sia un simbolo della nazione che un essere umano, e le sue scelte alimentari sono un ponte tra questi ruoli”. In pratica, il solito vecchio, caro “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”.
Per cominciare, una State dinner non si improvvisa, richiede mesi e mesi di pianificazione ed è considerata un evento che può forgiare le politiche internazionali di un’amministrazione americana. E mentre alcuni presidenti hanno assaporato l'idea di organizzare di persona una sontuosa cena di Stato, altri ne sono stati letteralmente sopraffatti.
La prima grande State dinner alla Casa Bianca fu servita nel 1874, quando il presidente Ulysses Grant - allora il più giovane comandante in capo con i suoi 46 anni - servì all’ospite d'onore, il re Kalakaua delle Hawaii, ben 29 portate. I piatti comprendevano trota, piccione e filetto di manzo, oltre ad un elisir di verdure dello chef rimasto scolpito negli annali della White House.
Ma c’era anche chi certe questioni le snobbava, come Donald Trump, che in privato preferiva Big Mac e nel corso dei suoi 4 anni di mandato presidenziale ha ospitato soltanto due cene di Stato, convinto che i costi potessero essere ridotti servendo hamburger su un tavolo riunioni.
Quello che emerge, dalle pagine del libro, è che esiste una storia di buon cibo dietro ogni presidente: Lincoln adorava la salsa di opossum, Eisenhower era un amante della carne di scoiattolo, Franklin Delano Roosevelt assaporava la lingua di bufalo come antipasto, Ronald Reagan offriva gelatine ai leader mondiali e Barack Obama andava pazzo per la rucola.
“Ci sono molti libri che passano al setaccio ognuno dei presidenti e altri scritti da ex chef della Casa Bianca, ma questo parla della politica del cibo e del cibo della politica filtrata attraverso la lente della Casa Bianca”. Per Prud’homme l’argomento è quasi un affare di famiglia, essendo il pronipote della leggendaria “chef francese” Julia Child, più volte chiamata alle cucine della Casa Bianca e autrice di due cene di Stato.
Il libro offre anche un assaggio di ricette della Casa Bianca, tra cui la conserva di ciliegie di Martha Washington, il Martini inverso di Frankin D. Roosevelt e il chili del fiume Pedernales di Lady Bird Johnson. La curiosità è che non ci sono differenze tra il cibo dei repubblicani e quello dei democratici: esistono repubblicani buongustai e democratici che mangiano hamburger e patatine. “Alcuni presidenti sono intrattenitori nati, altri no, ma diversi presidenti avevano un rapporto con il cibo assai personale”. Ad esempio Dwight Eisenhower, cresciuto in campagna fra gusti robusti, amava cucinare personalmente le ricette della madre: andava a caccia e a pesca, preparava una zuppa di fagioli che si faceva servire per due giorni e spesso spariva sul tetto della Casa Bianca a grigliare bistecche, facendo impazzire gli agenti della scorta che non lo trovavano da nessuna parte.
I Kennedy erano considerati dei veri epicurei del cibo. Appena arrivati alla Casa Bianca avevano assunto uno chef francese che preparava ogni giorno piatti da ristorante ultrastellato: mousse di sogliola, filetto di manzo Montfermeil, galantina di petto di fagiano farcita con erbe e pancetta, mirepoix di carote, sedano e scalogno. Jackie, in particolare, amava fare colazione a letto con pane tostato, succo d’arancia, miele, caffè macchiato con latte scremato. A pranzo si limitava ad una tazza di brodo e un piccolo sandwich al formaggio, mentre a cena prediligeva salmone bollito, agnello con patate e fagiolini, per chiudere con una pallina di gelato.
Una coppia dalle abitudini ben diverse rispetto ai Nixon, ad esempio, che consumavano ogni giorno kg di ricotta e offrivano ai loro ospiti vini da 6 dollari a bottiglia, tenendo quelle più pregiate per la propria cantina privata. O ancora George Bush padre, che odiava i broccoli così tanto da pretendere di bandirli dai menù della Casa Bianca, tanto privati quanto pubblici. Dava la colpa alla madre, che glieli propinava ogni giorno, per anni. Peccato che le sue invettive hanno avuto così impatto sull’opinione pubblica da far crollare le vendite di broccoli e scatenare le ire dei coltivatori, costringendolo a correre ai ripari.
Pur essendo un concetto difficile da capire, Prud’homme sostiene che nei secoli il palato presidenziale ha contribuito a plasmare gli Stati Uniti e a influenzare la politica alimentare in tutto il mondo: “I messaggi subliminali lanciati dal cibo riguardano tutto, dal gusto personale alla nutrizione, la politica, l’economia, la scienza e la guerra".