Per anni, quando i social e il web non avevano ancora rimpicciolito il mondo, indossare la t-shirt “Hard Rock Café” significava avere davanti ai propri occhi un viaggiatore, ma di una categoria più alta, culturalmente sofisticata.
Stava nascendo il primo esempio di “dining esperienziale”, dove nell’attesa del piatto ordinato tutti erano liberi di dare occhiata alle infinite memorabilia che ogni ristorante custodiva fra teche e vetrine, oltre ad ascoltare musica live o quella trasmessa dagli schermi che disseminano ogni locale. A ruota, sarebbero arrivate altre catene simili: il “Planet Hollywood”, clone dedicato al cinema nato dall’idea di Sylvester Stallone, Bruce Willys, Demi Moore e Arnold Schwarzenegger, o ancora il “Fashion Café”, ovvero l’idea dedicata al fashion & glamour voluta dalle super top model Naomi Campbell, Elle McPherson, Claudia Schiffer e Christy Turlington. Tutti durati una manciata di anni e chiusi in un silenzio imbarazzante, lasciando ancora una volta il dominio assoluto all’Hard Rock Café, l’unico che sembrava impermeabile a mode e tendenze.
Un impero che nel giro di pochi anni ha conquistato il mondo intero e oggi presente in 59 Paesi diversi con 191 ristoranti, a cui nel 1995 si sono aggiunti gli “Hard Rock Hotel & Casino”. Nel 2007, arriva il colpo di scena che nessuno si sarebbe mai aspettato: l’azienda viene acquistata dai “Seminole”, un’antica tribù di “native americans” e la sede centrale spostata a Orlando, in Florida.
Ma oggi, sul colosso Hard Rock Café iniziano ad addensarsi le nuvole della crisi. Una prima avvisaglia c’era già stata nel 2010, quando l’avvento dell’hip-hop aveva reso meno interessante la celebrazione del vecchio, sano rock, e una ristrettezza di budget portava i giovani a frequentare locali meno cari, declassando perfino la celebre t-shirt ad uno status symbol fin troppo abusato della globalizzazione.
In qualche modo, il gruppo che come slogan ha ancora il glorioso “Love All, Serve All”, supera la crisi anche se qualche decina di locali paga il dazio scomparendo. Ma oggi arrivano altri segnali, ancora più preoccupanti: a Parigi ha appena chiuso i battenti lo storico Hard Rock Café di Boulevard Montmartre, nel cuore pulsante della Ville Lumiére. “Siamo spiacenti di informarvi che siamo chiusi. Ringraziamo voi e la città di Parigi che ci ha sempre accolto con calore ed entusiasmo”, si legge in un cartello scritto in doppia lingua all’ingresso del ristorante.
Secondo i pochi dati disponibili, già nel 2022 la società aveva ormai raggiunto perdite pari a 1,8 milioni di euro: impossibile andare avanti mantenndo lo stipendio ai quasi 100 dipendenti. Aperto nel 1991, l’Hard Rock Café parigino custodiva 200 “pezzi originali di artisti” fra strumenti musicali, abiti di scena, autografi, oggetti e documenti personali appartenuti a Elvis Presley ed Eric Clapton.
La notizia in fondo non sarebbe così grave se quello di Parigi non fosse l’addio definitivo del marchio di ristoranti alla Francia, arrivato a ruota dopo le chiusure di Lione, di Nizza e di Marsiglia. E ora si teme che a ruota possano arrivare altre chiusure nella vecchia Europa, dove ormai l’Hard Rock Café non è più un’esperienza rara da vivere.
Tutto era iniziato a Londra nel 1971, quando due ristoratori di origine americana, Peter Morton e Isaac Tigrett, decidono di unire le forze per aprire un nuovo ristorante nella centralissima Park Lane. All’inizio, il locale era pieno di vecchie pubblicità di sigarette e insegne dei college americani, una novità d’otreoceano che attira celebrità come Paul McCartney, gli Eagles ed Eric Clapton, che nel 1979 dona al locale la sua “Fender Lead II”, primo pezzo di quella che sarebbe diventata una collezione infinita di memorabilia che celebrano la musica rock di ogni tempo. Meno di due settimane dopo fanno lo stesso Pete Townshend degli “Who” e Debbie Harry, che dona al locale la sua t-shirt autografata. Tutto il testo è storia.