Curata da Clément Chéroux e Walter Guadagnini, la mostra su Henri Cartier-Bresson, l’occhio del secolo, propone un racconto dedicato al legame tra il fotografo francese e l’Italia, uno dei Paesi da lui più frequentati e amati.
Accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore, la mostra è scandita cronologicamente dai viaggi del fotografo attraverso il territorio, da Nord a Sud, e dall’effervescenza e profondità che il paesaggio, soprattutto umano, del nostro Paese è stato in grado di trasmettergli, con la ricchezza delle testimonianze documentali che raccontano, tra giornali, riviste e libri, le tappe del rapporto del Maestro con l’Italia.
Realizzata in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, l’esposizione presenta 160 immagini che si focalizzano su alcuni periodi centrali della carriera del fotoreporter a partire dagli anni Trenta. È proprio nel corso di questo primo viaggio che il fotografo, ancora giovanissimo, acquisisce nuove consapevolezze sulla sua carriera e definisce la cifra stilistica che lo renderà riconoscibile in tutto il mondo.
Nato nel 1908 da una famiglia benestante, dopo aver studiato pittura con André Lhote, si introduce nel circolo surrealista parigino. È dall’incrocio tra un’idea di pittura come composizione formale e l’estetica surrealista dell’enigma che nasce il suo linguaggio fotografico. Nel 1932, Cartier-Bresson visita l’Italia per la prima volta con due amici molto cari – il poeta e scrittore André Pieyre de Mandiargues e la pittrice Leonor Fini – che saranno protagonisti di importanti scatti di quel periodo.
Milano, Venezia, Trieste, la Toscana, il Lazio e la Campania: nonostante sia all’inizio della sua carriera, Cartier-Bresson definisce in quel periodo alcune tematiche che caratterizzeranno tutta la sua produzione, come la straordinaria gestione dello spazio dell’immagine, il rapporto tra realtà e invenzione e la capacità di cogliere l’istante. In particolare, all’interno di alcuni paesaggi urbani si nota un processo di geometrizzazione che racconta di un uso mentale della macchina fotografica.
Dopo aver fondato, con Robert Capa, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert, l’agenzia Magnum Photos nel 1947, ormai noto a livello internazionale, il fotografo torna in Italia nel 1951, in un Paese profondamente cambiato, reduce dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e in piena ricostruzione. In qualità di fotoreporter, realizza servizi per diverse testate internazionali, da Life ad Harper’s Bazaar a Holiday, concentrandosi soprattutto su Roma e sul Sud Italia, due luoghi che presentano caratteristiche sociali e visive ben riconoscibili. In particolare, sono celebri gli scatti realizzati in un Sud modellato sulle pagine di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che introdurrà Henri Cartier-Bresson tra la Basilicata e la Lucania proprio in questi anni. Questi scatti documentano il disagio e le criticità del meridionale, ma anche la straordinaria ricchezza delle sue tradizioni e le novità introdotte dalla riforma agraria, dando ulteriore visibilità internazionale alla questione. In questi stessi anni opera anche a Roma, dove realizza per Life uno straordinario portfolio sulla vita di una piazza romana, affascinato dai volti delle persone e dallo stile di vita ancora legato all’identità profonda del luogo.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Cartier-Bresson lavora a numerosi servizi su Napoli e Venezia, nei quali si apprezza da un lato la capacità di interpretare la vita quotidiana delle città e dei loro abitanti, dall’altro la sua abilità di ritrattista anche degli intellettuali del tempo, tra cui Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini e Giorgio de Chirico.
L’ultimo periodo italiano risale agli anni Settanta, poco prima di allontanarsi dalla fotografia professionale, quando si focalizza sul rapporto tra uomo e macchina e sull’industrializzazione in particolare del Sud del Paese: sono di quegli anni i servizi sullo stabilimento Olivetti di Pozzuoli e su quello dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco.
La mostra si chiude idealmente con il ritorno a Matera, per raccontare, negli stessi luoghi fotografati vent’anni prima, la nuova realtà che avanza verso la modernità, rimanendo comunque aggrappata all’imprescindibile identità locale.
L’esposizione include anche un percorso di opere visivo-tattili accompagnate da audiodescrizioni.
Fino al 6 aprile 2025, la Project Room di CAMERA ospita invece l’esposizione Riccardo Moncalvo. Fotografie 1932-1990, a cura di Barbara Bergaglio. L’importante fotografo torinese inizia ad approcciarsi al mezzo fotografico a soli 13 anni, seguendo le orme del padre, titolare dell’Atelier di Fotografia Artistica e Industriale, e diventa molto presto socio della Società Fotografica Subalpina.