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“Dont’ be too late”, non essere in ritardo, recitava il quadrante dello Swatch più popolare fra gli yuppies, tribù urbana anni Ottanta dei giovani rampanti a cui appartenere era una tendenza irresistibile. Erano gli anni della mania dello “Swatch”, l’orologino svizzero di plastica che ha strattonato e strapazzato l’impettito mondo dell’orologeria, portando una ventata di democrazia a disposizione di tutti in cambio di una manciata di denaro. Per una volta, forse la prima, non serviva essere ricchi per sentirsi protagonisti di quei giorni.

Venduto in milioni di modelli ed entrato nell’elenco dei 11 oggetti più iconici della storia secondo il “Moma” di New York, lo Swatch 40 anni il 1 marzo. Tutto inizia sul finire degli anni Settanta, quando l’orologeria svizzera, in piena crisi esistenziale di fronte all’invasione degli orologini digitali giapponesi, chiama al suo capezzale Nicolas Hayek, imprenditore libanese naturalizzato in Svizzera. Il suo è un per nulla semplice: rilanciare la supremazia elvetica nel mondo dell’orologeria.

Il primo problema che affronta Hayek, è quello dei costi. Gli orologi giapponesi erano popolari anche perché non serviva immolare capitali per averne uno. Insomma, per ingaggiare battaglia bisogna prima accettare l’idea di scendere qualche gradino. Lo slogan di partenza, inculcato alla squadra messa al lavoro, spiega tutto: “Pochi soldi, grande qualità, divertimento, provocazione”.

La soluzione passa attraverso l’uso della plastica, unita al drastico dimezzamento dei componenti interni e al mantra di rendere quadranti e cinturini allegri, spiritosi e capaci di lanciare messaggi. Nasce lo “Swatch”, contrazione di Swisse e Watch, l’orologio per tutti ma dall’aspetto personalizzato in 12 modelli che per poche decine di lire chiunque può mettersi al polso.

Il successo va ben oltre le più rosee aspettative e contagia perfino il Giappone. Colpiti e affondati. La produzione europea, addirittura, non basta a soddisfare la richiesta, e la caccia diventa spasmodica: giovani che passano la notte davanti alle gioiellerie pur di essere fra i primi a poter entrare, prezzi del mercato nero che triplicano, negozi che espongono cartelli “No Swatch” o che contingentano le vendite, uno a testa, non di più. I pezzi più ricercati diventano oggetto di collezionismo, battuti all’asta perfino da “Sotheby’s” e “Christie’s”, fra un Guttuso e uno Schifano. All’università si tengono corsi e seminari per spiegare la fenomenologia dell’orologino di plastica che fa impazzire il mondo.

Nel primo anno, il 1983, se ne vendono 1,1 milioni, cinque anni dopo si arriva a 12 milioni di pezzi andati come il vento. Swatch diventa il simbolo della cultura pop e presta i propri quadranti all’arte: arrivano quelli griffati da Moby, Spike Lee, Renzo Piano, Vienne Westwood, Keith Haring, Perdo Almodovar, Peter Gabriel, David LaChappelle, Michael Jordan e Bill Gates.

Nel 2006, le celebrazioni per l’esemplare numero 333 milioni. Per Nicolas Hayek missione compita: è morto nel 2010, a 82 anni, con l’unico rammarico di non essere riuscito a creare la “Swatchmobile”, l’automobile che ad altri ha dato il via alla Smart.

Ma anche se l’isteria degli “Eighties” è ormai lontana, l’aventura del marchio Swatch continua a nutrirsi di autentici colpi di genio: nel 2022, con la collaborazione di “Omega” esce “MoonSwatch”, la collezione di 11 cronografi al quarzo con cassa in bioceramica per celebrare il leggendario Speemaster Moonwatch. È un attimo, e la febbre per l’orologino torna a crescere esattamente con 40 anni fa: code davanti ai negozi, modelli introvabili e mercato nero alle stelle.