“Dormirò quando sarò morto”, ripeteva nel lontano 1976 il rocker americano Warren Zevon. Anni dopo, crollando a terra priva di sensi nel suo ufficio, la giornalista Arianna Huffington aveva svelato ai medici di essere un po’ stanca: lavorava da anni una media di 18 ore al giorno, concedendosi appena un paio d’ore di sonno. Non sono i soli: le sveglie di Tim Cook e Bob Iger, rispettivamente AD del colosso “Apple” e omologo dell’impero “Disney”, suonano ogni mattina alle 4. E all’argomento, “The Economist” ha addirittura dedicato un’inchiesta accompagnata da un sondaggio in cui emergeva che per due terzi degli amministratori delegati di grandi aziende americane la sveglia non va mai oltre le 6.
Da qualche parte, nelle regole di una società basata sulla performance ad ogni costo, dev’esserci scritto che il bravo manager, l’uomo o la donna di successo, devono sprecare meno tempo possibile nelle quisquiglie della vita, perché le cose da fare lungo la scala del trionfo sono tante.
Insomma, il messaggio che arriva è davvero forte e chiaro: dormire è solo una perdita di tempo. Vero, alla lunga può provocare qualche scompenso caratteriale, come accertato qualche anno fa da una ricerca realizzata dall’Università di Torino, in Canada, secondo cui chi dorme poche ore per notte ha l’illusione di sentirsi più felice, ma paga la privazione con scatti di nervosismo e ipertensione che alla lunga fanno male alla salute.
Ma c’è di più, perché non basta alzarsi presto per assicurarsi una vita zeppa di successi, bisogna anche pensare al fisico dedicandosi a discipline come yoga, pilates e running prima di correre in ufficio, mentre fuori è ancora notte, leggendo la posta e le prime notizie della giornata mentre si sorseggia un caffè, ovviamente in piedi perché non c’è tempo da perdere.
Ma c’è un’altra metà del mondo, al contrario, rappresentata da chi ama concedersi quante più ore di sonno sia possibile, anche a costo di rimetterci di tasca propria. Una ricerca di un altro ateneo, questa volta l’Università di Oulu, Finlandia, ha appurato che chi si alza quando il sole è già alto in cielo guadagna circa il 4% in meno dei colleghi mattinieri. E questo senza contare che la dipendenza dal cuscino porta in dono stigmi sociali, garantendosi una serie di dicerie che fanno in fretta a scalare le gerarchie aziendali: scansafatiche, ritardatari, pigri, immaturi, indisciplinati.
Eppure, secondo l’ennesima (e ultima, promesso) ricerca scientifica, arrivare tardi in ufficio non significa essere meno produttivi, anzi. Ma in compenso, il grado di felicità di queste persone si impenna a dismisura, perché è gente che ama far tardi per dedicare tempo a sé stessa e alle cose che ama fare di più: uscire, vedere amici, fare sesso, concedersi weekend fiori casa. E della carriera chissenefrega, la vita è una sola.
La verità, come quasi sempre nella vita, forse sta nel mezzo: non è importante svegliarsi prestissimo o troppo tardi, quanto piuttosto seguire il proprio orologio biologico senza forzature. Anche perché, al netto dei due opposti, c’è un mondo intero che non è fatto né di gente che dorme poco, né che dorme troppo. In fondo, “Il mondo si divide in buoni e cattivi. I buoni dormono meglio ma i cattivi da svegli si divertono di più”, diceva Woody Allen.