Strappati, vecchi, preziosi, da pochi soldi, usati, nuovi, sbiaditi, corti, lunghi, sfasati, bassi in vita, destrutturati, ricamati, attillati. Non c’è variante, nella storia della moda di questo piccolo pianeta, che i jeans non abbiano saputo accontentare. Nati miseri, come pantalone da fatica, i jeans si sono presentati proprio quest’anno sulla soglia delle 150 candeline in splendida forma, consacrati come a nessun altro capo d’abbigliamento sia mai successo: li studiano nelle università e li conservano nei musei, ma li vendono anche nei mercati rionali. Perché la forza dei jeans è di essere di tutti, popolari ed esclusivi al tempo stesso: non c’è stilista che prima o poi non si sia trovato di fronte alla necessità di dire la propria sulla tela blu più celebre che c’è, fosse solo per aggiungere un bottone, un tono di colore o un orpello. Ma quella dei jeans è una strettoia obbligata in cui chi fa moda deve passare, ben sapendo che molte delle proprie fortune transitano esattamente da lì.
Ancora oggi i jeans sono simbolo di libertà, di spazi aperti, dell’America che tutti hanno dentro, quella delle highway in Harley Davidson, di controcultura che significa comunque avere una cultura, e di chi nell’armadio ha un paio di jeans anche per i giorni di festa.
Un capo d’abbigliamento sdoganato perfino nei salotti buoni, malgrado un tempo fosse bandito come la peste. In America, dove il fenomeno è diventato davvero fenomeno, ci pensarono i grandi divi di Hollywood, Marlon Brando e James Dean in prima fila, iconografie di un’epoca la cui uniforme prevedeva giubbotto di pelle, maglietta bianca e blue-jeans con risvolto al fondo, come il Fonzie di “Happy Days”. Un look usato per accompagnare i loro personaggi, ma talmente forte e incisivo da superare le esigenze di copione e diventare il modo di vestire anche lontano dal set.
In Italia, dove certi passaggi perbenisti sono più difficili da perpetrare, il merito va tutto all’Avvocato Agnelli, che nel lontano 1972, a Monaco di Baviera, si era presentato ad un ricevimento esclusivo con il blazer blu richiesto nell’invito, ma accompagnato da un paio di jeans, e per di più scoloriti, ad anticipare una camicia senza cravatta. L’avesse fatto un altro, chiunque altro, sarebbe stato accompagnato all’uscita coperto di pernacchie, ma se un esempio di stile ed eleganza sabauda come l’Avvocato amava i jeans, allora vivaddio, siano jeans per tutti.
E dire che tutto era iniziato nel 1873 a San Francisco, in California. Non avremmo i jeans se Levi Strauss, piccolo commerciante di origini tedesche emigrato in cerca di fortuna, e Jacob David Youphes, sarto originario del Nevada, non si fossero incontrati. La moda è un concetto ancora in là da venire, i due hanno in mente di realizzare pantaloni da lavoro utilizzando una tela in cotone, sperando di far gola a portuali, muratori e cercatori d’oro. Ed è una stoffa talmente dura, quella scelta dai due, che per bloccarla sono costretti a rivettare in rame le cuciture. Il brevetto, ancora oggi gelosamente conservato negli archivi della città californiana, è il numero 139.121.
I primissimi pantaloni a cinque tasche sono in tela marrone, ma è in arrivo una partita di denim blu prodotta a Genova con lo stesso scopo. Chiamano l’azienda “Levi’s”, e battezzano il loro unico modello “XX”, qualche tempo dopo diventato “501” in uno sforzo di fantasia. Alla faccia dei minatori, i jeans diventano subito un oggetto di culto: li vogliono tutti, e i due soci sono sommersi da un mare di ordini che faticano ad accontentare. Hanno così tanto da fare, da scordarsi perfino che nel 1890 scadono i diritti del brevetto, dettaglio che trasforma i jeans in un business planetario.
La vera esplosione arriva negli anni Sessanta con gli Hippy, che quando proprio devono vestirsi li vogliono a zampa d’elefante. Ma questo funziona in America, mentre in Europa i Mods inglesi li preferiscono a sigaretta. Nel 1966, i Beatles, nel pieno del loro successo, posano per la campagna pubblicitaria della “Lee”: è la consacrazione definitiva. Ma il denominatore comune, a qualsiasi latitudine, resta comunque la ribellione, il senso di libertà, contestazione e gioventù insiti nel concetto stesso di jeans. Negli anni Settanta iniziano le sperimentazioni: la vita si abbassa e qualcuno addirittura li taglia, riducendoli ai minimi termini e inventando gli hot pants, la declinazione più sexy di questa storia. Un decennio dopo i jeans irrompono nel circo del prêt-à-porter: Calvin Klein si affida Brooke Shield, la vita si alza ed entrano in scena le “pinces”. È il momento in cui vanno di moda “stone washed”, decolorati spesso con mezzi empirici: pietre pomici e candeggine mandano ai centri di assistenza migliaia di lavatrici. Armani li inserisce nelle sue collezioni dal 1981, con l’arrivo dei “paninari”, il cui credo accetta i jeans, ma quantomeno firmati. Gli si accoda Versace, che li immagina preziosi e lussuosi, adattandoli per le passerelle alle celebri curve di Naomi Campbell. Negli anni Novanta la vita si abbassa per lasciare spazio all’intimo (ridottissimo), che fa capolino dalle cuciture, Cavalli e Gucci li impreziosiscono con oro, pietre e scintillii di varia natura. E quando il millennio cambia cifra, l’imperativo della moda vuole i jeans rigidi e ancora più bassi in vita, stile rapper, tornando “skinny”, o attillatissimi, verso la metà del primo decennio, coperti di glitter e di effetti push-up, per gonfiare dove serve.
Oggi, a 150 anni dall’inizio di quest’avventura, non c’è marchio o griffe di moda che non abbia in catalogo la propria linea di jeans, mentre la ricerca continua, incessante. Si dice che sia in arrivo sui mercati un modello realizzato usando percentuali di kevlar, materiale impossibile da scalfire, tagliare e rovinare. Forse per ricominciare dai minatori.