Alzi la mano chi da solo, che fosse sotto la doccia o chiuso in macchina, non ha mai cantato a squarciagola “Voglio una vita come Steve McQueen”. È uno dei passaggi più leggendari di “Vita spericolata”, in senso assoluto uno degli intramontabili successi mai partoriti da Vasco Rossi, il rocker di Zocca che oggi, a 70 anni suonati, raduna folle oceaniche mentre allora era un semplice “provocatore” col giubbotto di pelle, i capelli lunghi e la voce stropicciata dall’alcol e tutto il resto.
Beh, non si sa come sia stato possibile, ma dalla prima volta in cui Vasco ha urlato al cielo “una vita che se ne frega di tutto, sì” sono passati 40 anni tondi.
Era il 3 febbraio del 1983, il posto il palco del Festival di Sanremo, l’edizione la numero 33. Vasco era tornato all’Ariston su precisa richiesta di Gianni Ravera, l’organizzatore di allora, dopo aver debuttato l’anno prima con “Vado al massimo”, un’altra bomba in musica che aveva già fatto centro fra i più giovani.
A scrivere il testo Vita spericolata era stato lo stesso Vasco, su musica di Tullio Ferro, ma per le impettite giurie del Festival era una mezza porcheria che meritava il penultimo posto, lanciando al primo la meteora Tiziana Rivale, seguita da Donatella Milani al secondo e Dori Ghezzi al terzo. Vasco, assai indispettito, durante la finale polemicamente si sarebbe allontanano dal microfono, svelando a tutta l’Italia di aver assistito a tre serate finte, nel più completo e asettico playback.
Secondo la leggenda, il brano sarebbe venuto in mente a Vasco durante un pomeriggio di pioggia a Cagliari, nell’attesa di salire sul palco per un concerto. Mentre il celebre “Roxy Bar” citato nel testo – che da allora avrebbe dato nome e decine di locali in tutt’Italia e ad un programma di Red Ronnie – è un omaggio/citazione a Fred Buscaglione. Il resto un inno allo stile di vita senza freni, pericoloso quanto affascinante, di chi non accetta regole e tantomeno ha intenzione di rallentare, anche se il rischio è di trovarsi davanti ad un muro, all’improvviso. Lo stesso Vasco, anni dopo, spiegherà di aver rifiutato un posto fisso in banca per seguire l’istinto e il bisogno di libertà. A dimostrazione che anche Dio, quando vuole, sa cosa fare.
Insomma, insieme ad uno stile da ballad tormentata, c’erano tutti gli ingredienti per trasformare quei 4 minuti e 46 secondi in un inno generazionale e trasformare il “Blasco” in uno dei pochi musicisti a saper interpretare le inquietudini degli anni Ottanta, decennio stipato di carriere, status-symbol, edonismo e fortune. Uno stile di vita a cui tutti – almeno per il tempo della canzone – prima o poi hanno sognato di sottrarsi urlando e ‘vi lascio tutto, ma voi in cambio lasciatemi vivere come mi pare’. Anche se in un angolo dell’anima era chiaro a tutti che certe cose riescono a pochi.
Ma da quel momento in poi, gridare alla luna “voglio una vita, la voglio piena di guai”, ha assunto un significato catartico: non tutti possono essere un ribelle, ma tutti possono sognare di diventarlo. Almeno per 4 minuti e 46 secondi.