Tutti pronti per il Black Friday? Bene, perché prima di iniziare a rendere incandescente la carta di credito, conviene forse perdere qualche minuto per dare un’occhiata ad uno dei più controversi e sovversivi documentari dell’anno.
Diffuso su “Netflix”, si intitola “Buy Now – L’inganno del consumismo” (Buy Now! The shopping Conspiracy), ed è un’impietosa analisi di tecniche e tattiche di marketing create per influenzare le decisioni d’acquisto, svelando i meccanismi che regolano lo sfrenato consumismo moderno in cui tutti siamo divisi per target.
Raccontato da una non meglio precisata “intelligenza artificiale”, il documentario è del tutto diverso rispetto alle video-denunce giornalistiche, tenendosi stretto un approccio più distaccato che ha il merito di amplificare ancora di più l’impatto dei trucchi che svela. Per cominciare, è giusto sapere che l’ambizione delle grandi aziende non è tanto di presentare le proprie creazioni, ma piuttosto saper creare aspirazioni, emozioni e status che sappiano trasformare un oggetto o un capo (in fondo come tanti presenti sul mercato), in un simbolo di successo o nella quint’essenza della felicità. Ma quello che conta di più è il risultato finale, ovvero il ciclo di insoddisfazione che questo crea, un vuoto che va nutrito con il continuo bisogno di essere riempito acquistando ancora, in modo seriale, verso una bulimia dello shopping da cui uscire diventa sempre più difficile.
Fra le tante rivelazioni anche un argomento di cui si discute da tempo: l’obsolescenza programmata, ovvero la durata stabilita a monte di apparecchi ed elettrodomestici, che una volta guasti non conviene mai far riparare, meglio acquistarne di nuovi, con effetti devastanti sul portafoglio ma soprattutto sull’ambiente. Basti pensare, per fare un esempio, che alcune delle prime lampadine realizzate nel 1878 da Thomas Alva Edison funzionano ancora, e sono visibili nella sua residenza di vacanza (visitabile) di Fort Myers, in Florida. Ma questo, non avrebbe permesso la sopravvivenza e i guadagni di migliaia di fabbriche che oggi le realizzano.
Lo stesso, identico principio dell’obsolescenza è quello applicato dalla cosiddetta “Fast fashion”, quei marchi destinati ai giovanissimi che settimanalmente propongono collezioni sempre nuove a prezzi volutamente bassi ma di qualità assai scadente, destinati appunto a durare poco.
E il documentario non tralascia neanche il fenomeno del “greewashing”, ovvero l’ostentazione di etichette che recitano “riciclabile” o “sostenibile” quando invece non hanno nulla di simile: sono prodotti in fabbriche asiatiche da persone ridotte in semischiavitù e una volta gettati non importa a nessuno riciclarli: finiscono per diventare montagne di tessuto sintetico in qualche angolo povero del mondo, dove nessuno si lamenta perché sa che nessuno sarebbe disposto ad ascoltarlo.
Ma la parte peggiore è forse quella in cui si affronta uno dei lati più oscuri del consumismo e della globalizzazione: la capacità delle grandi aziende di controllare e manipolare i desideri dei consumatori attraverso il monitoraggio dei loro dati personali, una vera miniera d’oro per chi sa come trarne vantaggio.