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La pizza è napoletana, punto e capo. Dai vicoli della città partenopea, l’impasto di farina, acqua e lievito condito e cotto nel forno a legna ha conquistato il resto del mondo, subendo di continuo attacchi e spesso violenze.

Ma nel tempo, il piatto italiano per eccellenza, ha visto emergere altre ricette accanto a quella napoletana, tradizionalmente dai bordi alti: su tutte la siciliana, altrimenti detta “sfinciuni”, uno dei cibi da strada palermitani per eccellenza, condita con pomodoro, cipolla, acciughe, origano e caciocavallo, e la romana, al contrario dalla pasta molto sottile e croccante.

Ma zitta zitta, da qualche tempo è iniziata la riscossa della pizza torinese, quella detta al “tegamino” o “padellino”. Caratterizzata dalla doppia lievitazione dell’impasto e dalla cottura in un piccolo tegame in alluminio senza manici di diametro mai superiore a 25 cm, le notizie della pizza torinese si perdono nella storia. La tradizione vuole che l’impasto lievitato sia porzionato e fatto crescere direttamente nel tegame per aumentare la digeribilità. Il risultato è una pizza più piccola delle altre, molto più alta e leggermente bruciacchiata grazie all’olio utilizzato per ungere il padellino.

Secondo una teoria sarebbe stata l’idea di un pizzaiolo che aveva soltanto in mente di sveltire il servizio per aumentare la clientela, un’altra invece – ritenuta più attendibile - propende per l’abbinamento tipico torinese della pizza al tegamino preceduta dalla farinata, adattata quindi alle necessità di una cottura ad alte temperature per breve tempo.

Secondo i libri di storia, almeno fino agli anni Sessanta, a Torino non esisteva altra pizza che quella al padellino, poi l’immigrazione dall’Italia del sud ha sdoganato le altre, che hanno preso il sopravvento relegando la pizza torinese ad una nicchia per gourmet. Ma adesso, il mondo della pizza sta riscoprendo la variante torinese, con molti pizzaioli in tutta Italia che iniziano ad includerla fra le varietà del menù.