Ogni tanto le frasi fatte, quelle popolari che si tramandano di generazione in generazione, hanno qualche fondo di verità. Ad esempio la ben nota “Si stava meglio quando si stava peggio”, calza come un guanto con la classifica Ocse dedicata ai salari degli italiani, di gran lunga inferiori rispetto a quelli degli anni Novanta. Di per sé non un decennio particolarmente fortunato come quello precedente, ma comunque sufficientemente attrezzato per diventare un rimpianto.
Ma il dato resta, e fa pensare. Perché anche se il calo dei salari reali, ovvero quelli rapportati ai prezzi, vale in tutta l’Europa, è l’Italia (e quando mai) ad aggiudicarsi il titolo di peggiore della classifica. Da queste parti, i salari avevano perso il 2,9% sfogliando i calendari dal 1990 al 2020. Ma colpo di scena, a fine 2022 una brusca frenata ha trascinato la percentuale al -7,5, a fronte di una media Ocse limitata 2,2%.
I motivi? Secondo gli esperti è la solita tempesta perfetta che sulla nostra Penisola non manca quasi mai, questa volta nata dalla pessima combinazione del caro energia, che da solo ha inciso non poco sui bilanci delle famiglie, ma con l’aggiunta di un evidente mancato aumento degli stipendi. La crescita salariale italiana, specifica l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dal 1991 ha registrato un timido 1,1% in più, scivolato via senza che nessuno se ne accorgesse.
Va da sé che il calo salariale è stato avvertito in misura molto più pesante dalle retribuzioni più basse, con una flessione del 10,3% compresa in una manciata di mesi, tra il primo trimestre 2022 e lo stesso periodo del 2023, e sempre a fronte di una media Ocse contenuta nel -3,5%. Comunque non l’hanno scampata neanche i salari medi (-7,5%) e quelli alti (-6%), che nella solita media europea sono rimasti contenuti a -3,8% nel primo caso e -4,8% nel secondo.
Dai dati che emergono dalla ricerca “Povere famiglie. L’impatto dell’inflazione sui redditi degli italiani”, voluta dall’Osservatorio nazionale dei redditi e delle famiglie in collaborazione con il Caf Acli e l’Iref, il reddito familiare mensile ha dovuto fare i conti con perdita media di 240 euro dal 2019 al 2022, in pratica tra i 317 euro mensili delle famiglie bireddito e i 150 di monoreddito.
Ma visto che deprimersi c’è sempre tempo, spalmando i numeri sul potere d’acquisto del carrello della spesa di 90 euro concentrato solo sui beni primari alimentari, le famiglie bireddito hanno perso circa 8 carrelli all’anno (700 euro), seguiti da separati/divorziati con 6 carrelli, la stessa cifra di single/unioni di fatto. Per finire con i 4 carrelli persi per strada delle famiglie monoreddito e vedovi.
Per finire in bellezza con gli interessi sui muti per le abitazioni, rosicchiati dall’inflazione galoppante e l’aumento del costo del denaro, con una media annuale di aumento degli interessi pari a circa 340 euro. Cifra che non vale per i mutui accesi dal 2020 in poi, per i quali l’aumento degli interessi è stato in media di oltre 1060 euro tra il 2020 e il 2022.
Secondo Tommaso Monacelli, ordinario di Macroeconomia all’università Bocconi di Milano, “I bassi salari sono la spia di un malessere profondo dell’economia che derivano da una crescita anemica della produttività totale dei fattori. I salari fermi sono la più grande ferita nel modello di specializzazione produttiva dell’Italia, basata sulle piccole e medie imprese. Con un impatto inevitabile anche sulla demografia. Con una forza lavoro anziana e poco istruita, per una scarsa percentuale di lavoratori con istruzione avanzata, ne risente anche la produttività. A ciò si aggiunga un mercato dei capitali poco dinamico e la ridotta dimensione delle imprese anche per sfuggire ai radar del fisco, generalmente poco aperte per questo all’innovazione tecnologica e dunque al valore aggiunto che ciò genera sulla produttività, retaggio anche di un capitalismo familiare affetto dal dogma del controllo”.