No, il selfie non è un atto di vanità, come invece pensavamo tutti. è piuttosto un esercizio della memoria, perché permette di cristallizzare momenti della nostra esistenza che un giorno, più avanti, sarà bello ricordare.
Discutibile o meno, la teoria è frutto delle ricerche di un team internazionale guidato dal professor Zachary Niese dell’università “Eberhard Karl” di Tubinga, in Germania, finita sulle autorevoli pagine della “Social Psychological Personally Science”.
Lo studio, condotto su un campione di 2.100 persone, aveva il nobile obiettivo di capire il senso recondito di una mania collettiva che, secondo alcune stime, ammonta a 93 milioni di selfie scattati in tutto il mondo ogni giorno.
Un’irrefrenabile frenesia che trascina milioni di persone a sfoderare lo smartphone in qualsiasi situazione, prima fra tutti immortalare se stessi, ma vale anche per condividere un piatto al ristorante o sugellare con una fotina l’incontro con degli amici. In pratica: perché c’è chi sente la necessità di infilare sempre la propria immagine e non si accontenta di scattare una semplice foto al paesaggio circostante? “Scattare e pubblicare foto fa parte della vita quotidiana di molte persone – assicura il professor Zachary – ma mentre per qualcuno il selfie è un gesto di pura vanità, per altre le immagini hanno il potere di riconnettere alle esperienze passate per costruire auto-narrazioni”.
Una conclusione a cui il team è arrivato attraverso sei diversi fasi di studio per valutare le diverse prospettive delle immagini: “Chi usa se stesso come soggetto perenne delle foto, scatta una foto dal proprio punto di vista documentando un’esperienza. La ricerca dimostra che la prospettiva più efficace dipende dalla motivazione della persona in quel momento, sia che si tratti di catturare un’esperienza fisica o il significato più profondo di un evento”.
Nella seconda parte, lo studio si è concentrato sui motivi per cui i selfie finiscano spesso – se non sempre – sui profili social di chi li scatta, e ancora una volta i risultati sembrerebbero escludere la vanagloria: “Anche uno scatto al ristorante può contribuire a costruire il senso che abbiamo della nostra persona, la prospettiva da cui viene fatto ha una grande rilevanza. Un primo piano del piatto che abbiamo davanti, ad esempio, racconterà l’esperienza provata nel vedere e annusare la pietanza, mentre un selfie che ci ritrae mentre mangiamo con il partner servirà a raccontare e ricordare un piacevole momento di condivisione. Addentrandoci nella ricerca abbiamo anche scoperto che le persone hanno un intuito naturale nello scegliere la prospettiva da cui scattare per ottenere esattamente quello che vogliono dalla foto”. Ma non essendo professionisti, capita di sbagliare prospettiva e angolazione, allora nasce un senso di insoddisfazione che riguardando la foto ci convince a cestinarla. Ma anche questo, spiegano gli esperti, è normale. Evviva.