La vita è breve, e vale la pena viverla nel miglior modo possibile: seguendo aspirazioni, sogni e desideri. Che spesso non coincidono soltanto con l’esigenza di avere uno stipendio a fine mese.
Negli Stati Uniti, il fenomeno della “Great Resignation”, le dimissioni volontarie, ha assunto i contorni di un problema difficile da risolvere: aziende costrette a chiudere o dimezzare la produzione per mancanza di personale. Un fenomeno sbarcato ben presto anche altrove, Italia compresa, dove tra aprile e giugno del 2021, quasi 500mila persone si sono licenziate volontariamente su 2,5 milioni di cessazioni di contratti. E non si tratta di ereditieri che hanno capito di non doversi più alzare al mattino, ma di gente normale, disposta a vivere con meno soldi in tasca, ma almeno a vivere. Dedicando a se stessi la maggior parte del tempo.
A tutto questo, di recente si sta aggiungendo un nuovo fenomeno: il “quiet quitting”. All’apparenza significa assumere una posizione meno netta nei confronti del lavoro, evitando di licenziarsi, ma al minimo sindacale: rifiutare gli straordinari e prendersi meno responsabilità, soprattutto quelle che valicano l’orario di lavoro, e le mansioni non specificate nei contratti.
Letteralmente significa “abbandono silenzioso”, e come accennato prima non è figlio degenere del reddito di cittadinanza, ma una visione nuova e per nulla carrieristica del lavoro propria della “Generazione Z”, che oltre all’idea di condividere piuttosto di avere, ribalta le priorità della vita mettendo all’ultimo posto il denaro.
Ancora una volta tutto parte dagli Stati Uniti, dove per decenni ha dominato la “hustle culture”, la deriva stacanovista che significa darsi anima e corpo a lavoro & carriera, entrambe inseguite in modo spasmodico dando se stessi alla causa. Ma, come conseguenza, la causa prima del “burnout”, il logorio che porta a insoddisfazione, depressione e stress, tre motivi in grado di minare la salute mentale.
Ma c’è anche un’altra corrente di pensiero, che sposta le cause del quiet quiting dalle spalle dei lavoratori a quelle dei manager, incapaci di fare squadra e di costruire un rapporto con i propri dipendenti, al punto che questi non vedono l’ora arrivi il momento di uscire. Lo conferma un report della “Gallup”, secondo cui un misero 14% dei lavoratori dipendenti europei si sente realmente “coinvolto”.