Alla lunga, il principio su cui “Starbucks” affonda le proprie fortune ha vinto: il caffè non è più sinonimo soltanto delll’espresso in tazzina. Perché quello, a bene vedere, è perfino banale, antico, desueto: ormai il vero caffè – quello amato dalla Gen Z – è un beverone che sta comodo nei grossi bicchieri di carta o nelle lattine, aromatizzato a piacere e soprattutto moltiplicato in migliaia di varianti diverse, condito con creme, panne e topping colorati. Una festa per gli occhi e per la gola.
Ma per lungo tempo, almeno da queste parti, non era così: il caffè americano, la brodaglia lunga che loro bevono a litri, stentava a varcare la frontiera con l’Italia: qui la fede imponeva la “tazzulella”, punto e basta. Al massimo, proprio quando fa caldo, il caffè poteva trasformarsi in gelato o granita, ma la fantasia non arrivava oltre.
A cambiare il paradigma sono i giovanissimi, quelli che secondo un pronostico realizzato da “Technavio”, porteranno il caffè nel mercato del “cold brew” (infuso freddo) fino a raggiungere 1,37 miliardi entro il prossimo anno. In pratica, con buona pace degli anziani e delle tradizioni, il caffè si sta spostando verso la lattina - comoda, pratica e confortevole – e chi produce caffè scalpita perché vuole arrivare in tempo utile in un mercato ormai pronto ad esplodere. Al lavoro, secondo gli esperti, ci sono tutti: Lavazza, Kimbo, Illy, Segafredo e Borbonese, ognuno con la propria proposta di caffè in formato “ready to drink”.
Un’ondata che ha vinto anche la refrattarietà degli italiani verso le novità a cui sono più legati, dopo aver cambiato l’esistenza ai giovani asiatici, dove il caffè in lattina ha conquistato l’83% del mercato, seguito a ruota dal Nord America, altro posto in cui il caffè è per natura stessa lungo e scuro come una notte senza luna. In Giappone è praticamente introvabile il “Blu Bottle CFoffee”, mentre i giovani inglesi impazziscono per il “Jimmy’s Iced Coffee”.
Per il cold brew, il caffè in lattina, si tratta in realtà di una seconda giovinezza: l’idea l’aveva avuta negli anni Sessanta Tadao Ueshima, titolare di una torrefazione in Giappone convinto di aver svoltato e invece finito coperto da fischi, pernacchie e commenti al vetriolo verso la sua “stravaganza senza alcun futuro”. E dire che il procedimento del cold brew è lungo, richiede tempo e attenzione: attraverso una “Toddy”, com’è chiamato lo strumento di estrazione, il caffè macinato filtra attraverso acqua o altri liquidi aromatizzati (rigorosamente freddi) in un contenitore, dove secondo le regole deve cadere in 8 gocce ogni 10 secondi, con un tempo stimato fra le 8 e le 12 ore complessive per farne una bicchierata. In compenso, al contrario del caffè all’italiana, che ha una vita olfattiva e gustativa abbastanza breve, il cold brew si può conservare in frigo per diversi giorni proprio perché ha evitato lo shock termico del calore. Anche per questo, è considerato più adatto dell’espresso per la granita, il caffè sheckerato, l’affogato e il frappè, e per gustarlo meglio ancora se dolcificato con zucchero liquido, cioccolato o panna.
A proposito, Toddy, il nome dell’estrattore più noto in circolazione ricorda l’americano Todd Simpson, chimico per studi e vivaista per mestiere, che dopo un viaggio in Guatamela era rimasto talmente colpito dal sapore del caffè filtrato da mettersi in testa di costruire una macchina per farselo in casa.