Storicamente, nel 1964 compare per la prima volta il termine “teoria del complotto”, ovvero l’attribuzione della colpa di un evento a cospirazioni di forze quasi sempre potenti ed elitarie che per motivi mai del tutto chiari, vorrebbero distruggere-dominare la razza umana. Nel 1964, a scatenare le teorie di una macchinazione erano stati gli scarsi risultati ottenuti dalla commissione Warren sull’assassinio del presidente Kennedy a Dallas, che avevano fatto pensare ai più una macchinazione per nascondere prove che avrebbero minato la stabilità del governo americano, più che all’eventualità di un’inchiesta che non era arrivata a scoprire granché, come a volte capita.
Da allora, le teorie del complotto si susseguono spedite, cavalcate ogni volta da milioni di persone in tutto il mondo e spesso destinate al silenzio dopo poco tempo, per mancanza di indizi veri e propri. Era stato così per la celebre vicenda di Paul McCartney, secondo una teoria morto in un incidente stradale e sostituto da un sosia per non mettere la parola fine ai “Beatles”, o ancora quella secondo cui Elvis sarebbe vivo e vegeto e di tanto in tanto amerebbe tornare e Memphis per assistere da spettatore alle veglie in sua memoria. Ancora più recenti quella secondo cui il Covid fosse stato volutamente diffuso per spingere la popolazione mondiale a vaccinarsi, inserendo poi nelle dosi microchip in grado di manovrare le menti. Lo stesso vale per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Twin tower di New York, o più di recente la crisi climatica, provocata ad arte, o ancora le scie chimiche, che servirebbero per “irrorare” l’umanità di chissà che.
Insomma, da tempo c’è in giro chi si diverte a spargere teorie e molta più gente disposta a credere a tutto. E per tentare di capire come sia possibile, soprattutto in tempi come questi, in cui il modo di informarsi non manca davvero, si è messa d’impegno la scienza. Nel dettaglio la “Emory University” di Atlanta, in Georgia, Stati Uniti, che alla missione ha deciso di dedicare un team di scienziati con il compito di capire il meccanismo che ancora riesce ad abbindolare milioni di persone affamate di complotti.
Dopo aver passato al setaccio decine di teorie e ben 170 studi precedenti, gli scienziati hanno misurato le motivazioni e le personalità di 158mila volontari reclutati fra Regno Unito, Stati Uniti e Polonia, scoprendo che il tratto identificativo comune di coloro più portati al pensiero cospiratorio nasce dal bisogno di sentirsi più al sicuro in una comunità che accetta lo stesso tipo di teoria. In tutto questo, aggiunge il team, c’entra molto la storia personale: chi nella vita ha subito minacce social è in genere più propenso a credere al complotto, al pari di altri che al contrario presentavano livelli di paranoia e instabilità da non sottovalutare.
Il report, pubblicato sulle pagine dell’APA (American Psyjological Association), si conclude con l’analisi dettagliata dei tratti comuni di ogni teoria del complotto. Quasi tutte nascono dal sospetto che una situazione possa giovare a qualcuno, ma per renderla credibile il passo successivo è la manipolazione di eventuali “prove” che siano in grado di confermare la teoria. Lanciata sui social, tecnicamente ogni teoria del complotto diventa virale in breve tempo e di conseguenza è sempre più difficili da confutare. I motivi per cui sono diffuse, poi, sono altrettanto vari: la convinzione che siano vere, o peggio ancora l’intenzione di provocare, manipolare o attaccare persone per motivi politici, finanziari o di discriminazione razziale, etnica, sessuale o religiosa.
Ma visto che molte teorie possono provocare danni seri all’interno di sacche della società, il consiglio degli scienziati è sempre quello di verificare l’attendibilità delle fonti, prima di condividere meccanicamente una notizia.