Nel giugno 2018, il destino dei “Wild Boars”, 12 ragazzi thailandesi tra gli 11 e i 17 anni e il loro allenatore, tiene il mondo con il fiato sospeso per 18 giorni: al termine di una partita di calcio, avevano deciso di esplorare una grotta nella provincia di Chiang Rai, dov’erano remasti intrappolati senza via d’uscita per le forti piogge monsoniche che nel giro di pochi minuti avevano tolto al gruppo ogni via di fuga. Le operazioni di salvataggio diventano un caso internazionale a cui partecipano oltre 1000 persone, fra cui molti volontari e speleologi esperti giunti da ogni parte del mondo.
Quando escono dalla grotta, da dove nei tentativi di salvarli muoiono due soccorritori, i 12 ragazzi diventano loro malgrado delle celebrità. Oltre al documentario “Netflix” (The Trapped 13) e il film diretto da Ron Howard (13 vite), il governo thailandese li sfrutta per riabilitare la propria immagine internazionale dopo il colpo di Stato del 2014: per mesi, i Wild Boars sono costretti a entrare e uscire da una grotta ricostruita in un centro commerciale di Bangkok, ogni volta davanti a centinaia di persone che scattano foto e chiedono selfie.
Terminato il clamore, anche il ritorno alle loro vite era stato diverso: molti avevano ricevuto aiuti e occasioni difficili da rifiutare, quasi come se il destino volesse risarcirli per le due settimane in cui li aveva costretti nel buio di una grotta umida.
Duangphet Phromthep, per tutti “Dom”, il capitano dei “Wild Boars” aveva ottenuto una borsa di studio della “Zico Foundation” che gli aveva aperto le porte del prestigioso “Brooke House College” di Market Harborough, nel Leicestershire, in Inghilterra.
Ma il 12 febbraio scorso, a 17 anni compiuti da poco, Dom viene trovato impiccato nella sua stanza del college: soccorso e trasportato in ospedale, per due giorni i medici tentano di tutto per salvargli la vita strappandolo dal coma, provando addirittura a mettergli il telefono vicino all’orecchio da cui sua mamma, dalla Thailandia, lo implora in lacrime di non andarsene. Ma non c’è nulla da fare.
Ai funerali, la famiglia assiste in collegamento video, non avendo il denaro necessario il rimpatrio della salma: gli arrivano le ceneri, diverse settimane dopo. “Trovo aberrante che non si sia trovato il denaro per restituire il corpo di Dom alla famiglia e svolgere il funerale in Thailandia”, aveva tuonato Rebecca Syed, psichiatra infantile all'università di Oxford.
Ma solo adesso, a mesi di distanza, dichiarando chiusa la fase delle analisi tossicologiche e dell’inchiesta, le autorità inglesi hanno diffuso il comunicato ufficiale che parla di suicidio.
Il motivo del gesto resta tutt’ora un mistero, ma forse non del tutto: secondo la famiglia e gli amici, Dom non riusciva a sopportare l’enorme pressione mediatica che aveva accompagnato lui e i suoi compagni di squadra all’uscita dalla grotta. A chi lo chiamava eroe rispondeva che i veri eroi non erano loro, ma i soccorritori che per due settimane non avevano esitato a rischiare la propria vita pur di salvarli.
E per quei giochi assurdi del destino, parte della depressione di Dom arrivava anche dalla borsa di studio che l’aveva portato nel Regno Unito, dove non conosceva nessuno, parlava a stento l’inglese e soprattutto la sua famiglia non aveva potuto seguirlo per via dei costi proibitivi. Nella sua nuova vita Dom si era sentito solo e abbandonato, ancora più di quanto non lo fosse stato, nei giorni lunghi giorni dentro una grotta che, alla fine, faceva meno paura della vita fuori da lì.