di Giorgio Cortese
Oggi siamo sempre più connessi, in una società liquida e costantemente online sui social, e qui su internet tutti tendiamo a mostrarci e sentirci migliori di quel che siamo davvero. Per mostrarci sui social sempre più affascinanti di quel che siamo veramente, poi prendiamo a piene mani quanto ci dà Wikipedia, per sembrare più intelligenti di quel che sentiamo di essere; poi Netflix, Spotify e Playstation ci fanno sentire meno soli e abbandonati di quando ci ritroviamo nel silenzio della nostra esistenza.
L’infinita arguzia forse rappresenta lo spirito del nostro tempo, un tempo di sentirci sempre esteriormente “infinitamente fichi”, oggi le occasioni per fingere di essere di più di quello che sentiamo d’essere sono così tante, così ghiotte, così efficaci, che per molti sarebbe stupido lasciarsele scappare. Perché mai lasciare spazio ai silenzi che ci mettono in crisi quando possiamo avere sempre nelle orecchie qualcosa da ascoltare? Perché mai rimanere da solo a riflettere sulla mia incertezza quando ho i social network con cui fingermi estroverso e sereno? Ma chi me lo fa fare di affrontare i miei dubbi e le mie sofferenze quando posso pubblicare una foto nella quale mostrare a tutti quanto sto bene? Il tempo dell’infinita arguzia diventa talmente accessibile che sembra ingenuo non cibarsene avidamente. Il problema è che poi, quando le luci della ribalta si spengono e i silenzi tornano prepotenti e la voce dell’animo mi chiede: “Quando tornerai a fare ordine dentro di te?”.
Oggi siamo circondati da suadenti artigli, voci, occhi, che vogliono assumere il controllo della nostra città interiore, mentre noi non le diamo alcuna importanza e la barattiamo volentieri per qualche minuto di distrazione in più. Dimenticando la centralità della nostra interiorità, ci trasformeremo in cinici iper dipendenti da social, incattiviti dagli odradek di kafkiana memoria, viviamo in una società dove non si vuole amare ma solo di ricevere. A continuare a vivere così ci impediamo nella vita di ognuno di noi di incontrare la parte più autentica di quel che siamo, ovvero il nostro animo, poi con superficialità ci convinciamo che le incertezze, le angosce e i dubbi non siano altro che errori di sistema. Prima di tutto, l’infinita arguzia come una droga cerca di distrarci con un sollievo fittizio da quella che Marco Aurelio chiamava “la cittadella interiore”, ovvero quel luogo dell’anima che non solo rappresenta la parte più autentica di noi stessi, ma che soprattutto siamo chiamati a difendere, sorvegliare e proteggere.
Nella cittadella interiore troviamo molte cose preziose: i ricordi della nostra infanzia, e con essi i traumi e le prime passioni; i desideri e progetti per il nostro futuro, e con essi le insicurezze e la motivazione; i nostri sentimenti più profondi, che possono andare dall’amore più incondizionato alla paura più abissale. Lì, nel centro della cittadella interiore, una voce emerge e ci chiede: “Prenditi cura di questo luogo”. Ma noi, distratti come siamo dai like, dalle voci festanti e dalle suadenti luci del mondo, ci siamo dimenticati di ascoltare quella voce, che molti chiamano coscienza. La seconda conseguenza, in parte legata a questo fatto, è ancora più terribile: i momenti di incertezza, gli eventi che suscitano domande e dubbi, gli attimi in cui ci accorgiamo di brancolare nel buio, vengono visti come “errori di sistema”. Ti senti incerto del futuro? Hai qualcosa di sbagliato! Provi paura per quel che ti aspetta?
Sicuramente c’è qualcosa che non va. L’effetto di questo pregiudizio, in particolar modo sulle menti giovani di adolescenti che necessariamente si sentono incerti e angosciati, è tragico: se di fronte al futuro mi sento incerto, sarà più proficuo distrarmi su Tik Tok rispetto ad affrontare l’angoscia che alloggia nella mia cittadella interiore. Se il mio futuro mi pare opaco, non mi conviene raccontarlo, perchè rischio di essere giudicato inadeguato rispetto agli standard che la mia comunità finge di voler sostenere. E così, l’incertezza, l’angoscia e il dubbio vengono espulsi dalla propria esistenza, ma solo per finta, e allora ci mascheriamo con l’infinita arguzia sui social, ma quando poi restiamo soli ci sentiamo sbagliati, inadeguati.
Perciò, da dove ripartire? Io credo che chiederci chi siamo e dove andiamo fermando la musica suadente dell’infinita arguzia e con coraggio e dire a gran voce: non c’è niente di male dichiarare che in certi momenti brancolo nel buio, non c’è nulla di anomalo nel sentire l’angosciante incertezza nel profondo del mio animo, solo così posso illuminarlo con la tenace candela della speranza. Ovviamente, in un’epoca dove pseudo imbonitori televisivi, influencer più o meno credibili e figuranti di ogni sorta fanno di tutto per accaparrarsi un po’ di visibilità facendo credere di essere infallibili, invincibili, oltreumani, questa idea potrebbe sembrare stramba o addirittura inaccettabile. Ma proprio per questo è la via giusta. Non importa quale sia la nostra umana condizione, non importa quanto abbiamo studiato, quanta esperienza ci siamo fatti, quante cose abbiamo visto: vivere è l’arte di brancolare nel buio. Nessuno ha risolto l’enigma della propria vita e tutti navighiamo a vista, sperando di fare del nostro meglio.
Accettare l’incertezza della propria vita significa tornare ad ascoltare quella voce disturbatrice che proviene dall’interiorità e ci impone di difendere la cittadella interiore. In questa attuale festa fasulla e universale chiamata infinita arguzia ci siamo immersi fino all’amigdala. Credo sia giunto il momento di fermare la musica, prendere il microfono e dire che non siamo invincibili, né infallibili. Torniamo a brancolare nel buio tenendoci per mano, invece di sgomitare violenti per sembrare più grandi, più scemi di tutti gli altri. Forse, a luci spente, ci orienteremo meglio di così, o no. (Giorgio Cortese)