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di Giorgio Cortese

C’è una nuova specie antropologica che popola i bar italiani alle otto del mattino: i VivaVociani. Li riconosci subito, non tanto dall’aspetto quanto dall’acustica. Appena entri, mentre sogni il silenzio e il primo caffè, una voce metallica si diffonde tra i cornetti: «Oh, Giò! E allora, com’è andata ieri sera? Eh? Eh?».

Segue un gracchiare di risate, un tintinnio di tazzine e, subito dopo, la voce del non presente Giò, che risponde direttamente dal regno digitale, amplificato come se stesse partecipando a un talk show mattutino trasmesso solo nel tuo bar.

I VivaVociani non si limitano ai bar. Li trovi nei negozi, in coda al supermercato, pronti a raccontare a tutti i fatti loro mentre strisciano la carta. Alcuni si sono evoluti nella forma triangolare: parlano con un amico via vivavoce e, nel frattempo, incontrano un conoscente in carne e ossa. Si crea così un fastidioso baccano a tre voci, senza offesa per le baccanti di greca memoria.

Questi individui non conoscono vergogna acustica. Sono convinti, nella loro serena inconsapevolezza sonora, che il mondo intero desideri partecipare alla loro chiamata, condividere la loro agenda, vivere la loro vita in diretta. Noi, nel frattempo, fingiamo di leggere il giornale o di chiacchierare con il vicino, ma in realtà stiamo facendo un esercizio zen di autocontrollo per non lanciare la tazzina.

Eppure, a ben pensarci, forse i VivaVociani sono dei filosofi inconsapevoli. Ci ricordano che il confine tra privato e pubblico si è dissolto in un’unica vibrazione sonora: tutto è suono, tutto è notifica, tutto è condivisione. Noi li giudichiamo, certo. Ma non siamo forse anche noi disturbatori silenziosi, assorti nei nostri schermi, immersi in universi di messaggi muti?

Oggi siamo sommersi dai social che, a dispetto del nome, ci isolano più di quanto ci uniscano. Forse i VivaVociani, nel loro chiasso, ci stanno solo ricordando una verità scomoda: il silenzio è diventato un lusso, e la condivisione una forma di solitudine di massa.