Galleria fotografica

di Giorgio Cortese

Io, come il tenente Drogo, ho imparato ad aspettare e a distanza di 48 anni dagli esami di maturità, li ricordo ancora piacevolmente, un ricordo dolce-amaro. Lascio alla scienza della psiche dire il perché e il percome. Di sicuro ha lasciato indelebile traccia la particolarità dell’evento contraddistinto dall’attesa spasmodica, dalla preparazione full immersion, dall’incognita circa i commissari d’esame all’oscuro dei miei trascorsi scolastici, dal bisogno di soddisfare l’aspettativa dei genitori che avevano speso soldi per farmi studiare e, roba da far tremare le vene e i polsi, dalla prospettiva di essere dichiarato “non maturo”.

Che avrebbe voluto o potuto dire esserlo non solo negli studi scolastici, ma anche nella pur ancora verde vita. In quegli anni, per il colloquio col docente di lettere, si portava un autore contemporaneo e un suo romanzo. Non ci pensai due volte: scelsi Dino Buzzati e il suo “Il deserto dei Tartari”. Mi dissi: se il protagonista, il giovane tenente Giovanni Drogo, ebbe la tenacia e la pazienza di aspettare per un’intera vita nel chiuso di una fortezza l’arrivo del temibile nemico tartaro, cosa costa a me, giovane studente, aspettare per una quindicina di giorni nel chiuso della mia camera l’arrivo delle temibili prove d’esame?

Alla fine dell’interrogazione, il commissario di lettere mi disse: “Le auguro ogni fortuna a venire, ma nella vita non smetta di aspettare”. Raccolsi il consiglio. Forse troppo: di quando in quando sogno gli esami di maturità. Ma, ahimè, non quelli già fatti, bensì quelli ancora da fare ogni due mesi per controllare le metastasi con calma, pazienza, ottimismo e con la Fede della speranza.