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di Giorgio Cortese

La chiamano Indian Summer negli Stati Uniti, ma da noi è l’estate di San Martino: quando il freddo si ritira e un tepore improvviso torna a posarsi sui campi e sui boschi. È un dono fugace, un sorriso della natura prima del silenzio invernale. Le giornate si accorciano, la fotosintesi rallenta, la clorofilla scompare e allora comincia la festa dei colori: gialli, rossi, aranci, cremisi e bordeaux. Una sinfonia luminosa che dura poco, ma che ogni anno rinnova lo stupore.

Quando ci si trova immersi in quel prodigio di luce e silenzio, lo stupore nasce spontaneo, come un respiro che si ferma davanti a qualcosa di più grande di noi. È un sentimento antico, quasi infantile, che riaccende la meraviglia primordiale del guardare. Le foglie non sono più solo foglie: diventano frammenti di sole caduti sulla terra, riflessi del tempo che si consuma con dolcezza. L’animo, sorpreso da tanta grazia, si apre, e nel cuore affiora una gioia quieta, fatta di riconoscenza e di ascolto. È come se la natura, nel suo lento congedo, parlasse una lingua che comprendiamo senza parole, quella del ritorno, della misura, della bellezza che non pretende di durare.

In quel momento noi esseri umani non siamo spettatori ma parte del tutto: si cammina nel bosco come dentro un sogno di cui anche lui è colore. Il fruscio delle foglie che cadono diventa musica lieve, una carezza d’aria che scioglie i pensieri. Tutto sembra rallentare, persino il tempo: e nel silenzio dorato dell’autunno la vita si fa semplice, essenziale, piena. È una gioia che non grida, ma illumina: una felicità che nasce dallo stupore puro di essere ancora, per un istante, dentro la bellezza del mondo.

Certo, rifletto che le piante orientali offrono i toni più intensi: gli aceri dalle infinite sfumature di rosso, i ginkgo dai ventagli dorati, i cornus dal rosa tenue, i liquidambar americani e le parrozie caucasiche dai toni cangianti. Sono specie che amano i giardini ordinati, ma anche gli alberi della nostra terra: aceri campestri, ciliegi selvatici, biancospini, sorbi, nespoli e l’umile corbezzolo sempreverde, sanno donare colori caldi e intimi, familiari come un fuoco domestico.

Oggi il termine foliage ha dato un’aura internazionale e modaiola a questo spettacolo naturale. Ma per chi ama la lingua e la terra, foglietum suona più vero: un bosco di foglie, una celebrazione latina coniata da qualche dotto classicista per onorare il ciclo vitale della vita. Camminando tra i sentieri del parco Martinotti e Bonaudo, nel silenzio del mattino, gli alberi rivelano la loro diversità e la loro ricchezza. Lì dove si alternano specie diverse, la biodiversità diventa un affresco vivente. In montagna, i larici color oro e arancio spiccano sul verde delle conifere, ricordandoci che anche la montagna sa fiorire di luce.

Ogni specie ha il suo modo di dire addio. I castagni si tingono di giallo pieno, le querce vestono il marrone d’inverno, i faggi oscillano tra giallo e arancio prima di farsi bruni. I ciliegi selvatici infiammano il bosco con vampate rosso-aranciate, i salici virano al giallo e si spogliano presto, lasciando i rami lucidi a riflettere la luce. I pioppi, rapidi e vibranti, si muovono a ogni respiro del vento, e nel loro tremore dorato sembra di scorgere la vita stessa che resiste. Le betulle, i tigli, i sorbi e i cornioli aggiungono altre pennellate: giallo, rosso, vinato, oro. È un teatro effimero, in cui ogni attore recita la sua parte sapendo che presto scenderà il sipario.

Il foglietum non è solo un fenomeno botanico, ma una lezione di filosofia naturale. In quel virare delle foglie, nella loro caduta lenta e luminosa, c’è la saggezza del tempo che passa. Ogni colore è un commiato, ma anche una promessa: la bellezza non è nell’eterno, bensì nel mutare. Gli alberi ci insegnano a fiorire e a lasciar andare, a trasformarci senza rimpianto, a vivere ogni stagione come un dono da restituire. Così l’autunno, più che una fine, diventa un atto di gratitudine: la terra che ringrazia la luce prima del sonno, e noi che impariamo, per un istante, ad accettare la dolcezza del tramonto.