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di Giorgio Cortese

Nel frastuono superficiale delle maschere di plastica e delle zucche fluorescenti, Halloween sembra oggi soltanto un’altra occasione commerciale, un carnevale fuori stagione fatto di travestimenti e dolcetti confezionati in serie. Ma se ci fermiamo un istante, se chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il respiro dell’autunno, possiamo ancora percepire qualcosa di più antico: un’eco profonda che ci parla di fuoco, pane e memoria, del legame misterioso che unisce i vivi e i morti.

Halloween non nasce nei supermercati né nei film americani. Le sue origini affondano nei campi nebbiosi d’Europa, quando i Celti celebravano la fine dell’anno con la festa di Samhain, la notte in cui il confine tra i mondi diventava sottile. Si accendevano grandi falò per salutare il raccolto e proteggere la comunità dal buio dell’inverno. Il fuoco e il pane erano offerte sacre, simboli di vita che rinasce, di una continuità che neppure la morte può interrompere.

Con il tempo, quei riti si trasformarono: divennero cristiani, poi contadini e infine popolari. Le lanterne scavate nelle rape o nelle zucche, i pani dei morti, le fave e le castagne parlavano la stessa lingua: il cibo come memoria, il fuoco come soglia. Quando gli emigranti portarono queste usanze oltreoceano, l’America le reinventò aggiungendo zucchero e spettacolo. Eppure, anche sotto i costumi e i dolcetti, sopravvive il nucleo originario: condividere qualcosa da mangiare per ricordare che la vita non finisce, ma si trasforma.

In Italia, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, la memoria dei defunti si celebra da secoli con un rito silenzioso e diffuso: il banchetto dei morti.

In ogni regione il cibo diventa preghiera, e la tavola si trasforma in un altare domestico.

In molte case si lasciava la tavola apparecchiata, con una sedia vuota, un bicchiere di vino o un piatto del cibo preferito dal defunto. Si credeva che nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre le anime tornassero a visitare la famiglia, in cerca di calore e di memoria. Era un gesto semplice ma pieno d’amore: ricordare attraverso il nutrimento, accogliere con rispetto ciò che resta invisibile.

Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia ogni regione ha conservato un frammento di questa sacralità: in Lombardia si prepara il Pan dei morti, con uvetta e spezie; in Veneto la Suca baruca, la zucca bitorzoluta di Chioggia, diventa lanterna e pietanza; in Romagna si cuoce la piada dei morti; in Toscana il pan dei santi; in Umbria e Lazio le fave dei morti di mandorle; in Puglia la colva di grano e mosto; in Sicilia i pupi di zucchero e la frutta di Martorana. Ogni regione parla una lingua diversa, ma racconta la stessa verità: nutrire la memoria è nutrire la vita.

In Piemonte, e qui in Canavese, la tradizione assume un tono sobrio e profondo. Qui si preparava la “Supa dij mort”, una zuppa calda di pane, brodo e verdure che scaldava i vivi e onorava i morti.

Si cucinava a fine ottobre, con quello che si aveva in casa: pane raffermo, brodo di gallina, cipolle, verdure d’orto. La si lasciava sobbollire lentamente, mentre le campane suonavano a morto. Poi si portava in tavola, fumante, e qualcuno ne lasciava una ciotola sul davanzale o accanto al camino, “per chi torna a trovarci”. Era un modo per dire ai defunti: “Non vi abbiamo dimenticati. Siete ancora parte della nostra casa.” Questa zuppa, così umile, racchiude tutto lo spirito piemontese: la concretezza del pane, la forza del silenzio, la dolcezza del ricordo. È un cibo che scalda il corpo, ma anche la memoria.

Oggi Halloween rischia di ridursi a una “carnevalata” fatta di travestimenti e risate vuote. Ma la notte dei morti non è la festa dei mostri: è la notte del confine, il momento in cui la vita si ferma un attimo a guardare oltre. È una notte che chiede silenzio, non rumore; luce di candela, non lampadine colorate; riflessione, non travestimento. Invece di rincorrere mode importate, potremmo tornare a preparare le nostre zuppe, i nostri pani, i nostri dolci di memoria. Potremmo accendere un lume sul davanzale, dire una preghiera per chi non c’è più, raccontare ai bambini i nomi e le storie dei nonni, degli avi, dei volti che hanno costruito la nostra vita.

Ricordare i morti significa non avere paura della morte, ma riconoscerla come parte della vita. Ogni candela accesa, ogni pane condiviso, ogni profumo d’autunno che riempie la casa è un modo per dire che nessuno muore davvero finché qualcuno lo ricorda.

Tra il lume tremolante di una candela e il profumo del pane caldo, l’essere umano riscopre la sua verità più antica: la vita continua anche oltre la soglia del visibile. Halloween, celebrato nel suo senso autentico, non è una festa di paura, ma un atto di gratitudine: verso la terra che ci nutre, verso i morti che ci hanno preceduti, verso la vita che ogni anno ci chiede di accendere un fuoco, di spezzare un pane e di non dimenticare.

Forse dovremmo tornare a farlo anche noi, in silenzio, con una ciotola di zuppa fumante e una candela accesa. Non per evocare fantasmi, ma per ricordare chi ci ha amato. E per imparare, da loro, a vivere con più radici e più cuore.