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di Giorgio Cortese

Chi fu davvero Francesco d’Assisi? La sua figura sfugge a ogni tentativo di riduzione, proprio perché vive di paradossi. Da un lato il primo a ricevere le stigmate, immagine vivente del dolore di Cristo; dall’altro “giullare di Dio”, capace di una gioia così intensa da sembrare follia. Da un lato ribelle radicale contro le logiche dell’economia e del potere, dall’altro fedele e obbediente alla Chiesa. Da un lato amante della natura, predicatore agli uccelli, dall’altro autore di un Cantico delle creature che non cita alcun animale. Da un lato diffidente verso i libri, dall’altro fondatore di un ordine che avrebbe dato al mondo pensatori e guide spirituali di straordinaria profondità.

La sua eredità vive proprio in questa tensione: Francesco non appartiene a un’epoca o a un’interpretazione sola, ma parla a generazioni diverse con linguaggi sempre nuovi. Non a caso, in una società come la nostra che rischia di smarrire il senso del vivere insieme, la sua memoria diventa nutrimento per l’immaginario comune, indispensabile per riconoscerci ancora come comunità.

Il momento decisivo della sua vita resta l’incontro con i lebbrosi. Un giorno del 1205 scese da cavallo e baciò uno di loro. In quell’istante, scrisse, “uscii dal mondo”: in realtà vi entrava davvero, perché è proprio il dolore accolto che rende possibile la comunione autentica con la realtà. Da qui sgorga la sua visione della gioia: non illusione superficiale, ma forza che nasce dalla fragilità, dalla prossimità alla sofferenza. Non a caso raccomandava ai suoi compagni di mostrarsi sempre lieti, perché la gioia era il segno della vera libertà interiore.

Tutto questo si riflette nel Cantico delle creature, una delle vette della letteratura italiana. La tradizione narra che Francesco lo compose a San Damiano, negli ultimi anni, quasi cieco e segnato dalle malattie. Non si trattava, dunque, del canto spensierato di un uomo ingenuo, ma della preghiera di chi, inchiodato alla sofferenza, sceglie di rispondere con la lode.

Proprio questa tensione ha spinto alcuni interpreti moderni a rovesciare la lettura del Cantico: non un inno idilliaco alla bellezza del cosmo, ma un programma spirituale che parte dall’esperienza del limite, del perdono, della malattia e della morte. Le ultime strofe – quelle che parlano di chi sa perdonare, di chi sopporta l’infermità, di chi accoglie “sora nostra morte corporale” – non sono accessori marginali, ma la chiave di tutto. Solo se lette da questo fondo drammatico le lodi al sole, all’acqua, al vento e alla terra acquistano il loro significato pieno: non come ingenue esaltazioni della natura, ma come riconciliazione con il creato nonostante il male che lo attraversa.

Il Cantico diventa così una preghiera intessuta di umiltà, scritta da un uomo malato e sofferente, ma capace di trasformare il dolore in canto. L’“Altissimu” con cui si apre e l’“humilitate” con cui si chiude racchiudono un’umanità che non rinuncia alla speranza, ma la fonda sulla fragilità condivisa.

Che cosa festeggiamo dunque ogni 4 ottobre, giorno che oggi è festa nazionale? Non un’immagine scolorita o un santino consolatorio, ma l’eredità viva di un uomo che ha saputo trasformare la debolezza in forza, la sofferenza in gioia, l’obbedienza in libertà. Francesco ci ricorda che la vita non si compie nel potere né nella ricchezza, ma nell’apertura a ciò che è più grande di noi.

In un tempo attraversato da crisi e paure, la voce di Francesco torna a sorprenderci: la gioia non nasce dall’assenza di dolore, ma dalla sua trasfigurazione; non dal possesso, ma dal dono; non dall’isolamento, ma dalla fraternità. È questo paradosso che rende la sua memoria inesauribile e attuale. Ed è questo che, ancora oggi, può insegnarci a non cedere alla disperazione, ma a custodire la possibilità del bene.