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di Giorgio Cortese

“Il mio amico non è altro che la metà di me stesso”, scrisse il gesuita e studioso Matteo Ricci, 1552-1610, che sull’amicizia elaborò una straordinaria antologia di detti. Quella che può suonare come una definizione astratta acquista la sua trasparenza tangibile in un abbraccio. Quando gli abbracci si allacciano, incorporiamo e siamo incorporati nel cuore l’uno dell’altro, come se nel cuore dell’amico noi avessimo un nido o una patria. In questo abbandono consenziente si esprimono certezze che ci sono estremamente care: reciprocità, gioia, tenerezza, presenza, l’incontrarsi e il ritrovarsi, la comunione.

L’istante dell’abbraccio le dichiara tutte d’un sol getto, ed è come se le sigillasse nella nostra anima. Per questo l’abbraccio non è solo un legame, una pausa in cui il respiro riposa: è anche un trampolino che ci proietta là dove, senza la fiducia e l’ispirazione di quanti ci amano, non sapremmo arrivare. Il filosofo di stirpe rabbinica Martin Buber, che come pochi ha saputo pensare l’enigma e il significato della nostra umanità, così scrisse: “Il mondo non è comprensibile, ma è abbracciabile”. Con questa frase non si riferiva soltanto al mondo che è fuori di noi, ma anche al mondo specificamente umano, all’universo interno, a quella porzione di esperienza e di mistero che nel tempo emerge, con ogni persona, in modo unico. E allo stesso modo pensò le relazioni e gli affetti che siamo capaci di intessere.

A cominciare dall’amicizia. I limiti della comprensione hanno a che vedere con il fatto che l’altro rimane altro e, anche quando ci è più che mai prossimo, non cessa mai di essere irriducibile a noi. Nell’amicizia questo non è un problema, anzi è un arricchimento. Viene sempre un momento in cui dobbiamo dirci che la cosa più importante non è capire, ma la cosa più importante è abbracciare, e abbracciare anche ciò che non comprendiamo. Perché la grandezza dell’abbraccio sta nel suo arrivare, spesso, dove la comprensione non arriva. L’abbraccio riconosce che esiste una pelle, da una parte e dall’altra, e che anche nell’intimità questa pellicola si mantiene. Farci vicini agli altri non è consumarli, quasi potessimo ridurli a oggetto. Anche quando ci stringono al petto dei nostri amici, gli abbracci dell’amicizia ci fanno sempre respirare ampiezza e vastità.

È vero che nell’abbraccio tocchiamo dimensioni importanti dell’essere. Maria Rilke domandava: “«Noi ci tocchiamo. / Con che cosa? / Con dei battiti d’ali. / Con le lontananze stesse ci tocchiamo”. Il bello dell’abbraccio è che non vuol essere una rete per catturare l’altro. L’abbraccio è umile e intuisce che possiamo solo avvicinarci, senza tentare di impossessarci dell’altro e nemmeno di accedere alla sua pienezza. L’abbraccio è accettare di toccare senza toccare. Per questo l’abbraccio è il momento dell’incontro in cui il contatto si realizza, ma è anche il momento successivo, quando la separazione viene assunta come forma profonda di comunione. L’abbraccio che non si richiude sull’altro, ma si apre a lui secondo un’infinità che l’altro può scoprire, questo abbraccio è un incontro. E, lungi dal concretizzare inadeguatamente ciò che l’incontro aveva promesso, mantiene la sua promessa in questo modo: promettendo sempre di più, in una sovrabbondanza che nessuna progressione è in grado calcolare e ancor meno di quantificare.

L’abbraccio è una delle espressioni umane più vere di reciprocità. Qualcuno dice che il nostro corpo ha la forma di un abbraccio. È forse per questo che l’atto di abbracciare è così semplice, anche quando dobbiamo percorrere un lungo cammino. L’abbraccio ha una forza espressiva incredibile. L’abbraccio comunica la disponibilità a entrare in relazione con gli altri, superando il dualismo, facendo cadere armature e resistenze, manifestando un cedimento, anche solo per qualche istante, nella difesa dello spazio individuale. Esiste poi una tipologia vastissima di abbracci, e ognuna di esse insegna qualcosa di quello che un abbraccio può essere: accoglienza e commiato, congratulazioni e lutto, riconciliazione e gesto di cullare, affetto tra amici o passione amorosa.

Vi ci riconosciamo tutti: in abbracci quotidiani e straordinari, abbracci drammatici o trasparenti, abbracci inondati di lacrime o di puro giubilo, abbracci di persone vicine o distanti, abbracci fraterni o innamorati; in abbracci ripetuti oppure, anche questo è possibile, in quell’unico e idealizzato abbraccio che mai è arrivato a realizzarsi ma al quale interiormente ritorniamo i innumerevoli volte. In principio fu l’abbraccio, se pensiamo al grembo che nella prima infanzia ci nutrì. Questa è stata per tutti noi la prima e riconfortante forma di comunicazione. Ma il bisogno di un abbraccio accompagna la nostra esistenza fino alla fine. L’abbraccio è una lunga conversazione che si fa senza parole. Tutto quello che deve essere detto viene sillabato nel silenzio, e accade allora una cosa che è talmente preziosa e, in fin dei conti, talmente rara: senza difese, un cuore si pone in ascolto di un altro cuore. (blog di Giorgio Cortese)