di Giorgio Cortese
Nel 1961 il settimanale New Yorker chiese alla storica e filosofa Hannah Arendt di seguire il processo ad Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile della pianificazione logistica dell’Olocausto. Fuggito in Argentina alla fine della guerra, Eichmann si era rifatto una vita sotto falso nome in un sobborgo di Buenos Aires, dove era stato raggiunto dalla famiglia. Identificato e localizzato da numerose testimonianze, nel maggio del 1960 venne rapito da un gruppo di agenti del Mossad e trasferito in Israele per essere processato.
L’uomo che tanto la Arendt quanto il pubblico che assisteva alle udienze si trovarono di fronte non era l’atteso mostro sanguinario imbevuto di folle antisemitismo, ma piuttosto una figura sbiadita dalla personalità anonima, un “uomo qualunque” che senza nessuna coscienza critica si era prestato all’organizzazione logistica del più grande genocidio della storia. Nascosto dietro una scrivania, senza mai sporcarsi direttamente le mani, zelante esecutore degli ordini, Eichmann aveva messo il suo talento di grigio burocrate al servizio della macchina dello sterminio.
La sua timida difesa di fronte ad accuse terribili e i racconti di ordinaria vita quotidiana che scaturivano dalle sue dichiarazioni, ispirarono alla Arendt il concetto di “banalità del male”, che divenne in seguito il titolo del libro che raccolse le sue corrispondenze. La Arendt a proposito di Eichmann scrisse che non era stupido, era semplicemente senza idee, una cosa molto diversa dalla stupidità, e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo.