di Giorgio Cortese
Stappare una bottiglia di vino è un rituale che ha sempre qualcosa di magico: gli occhi dei presenti sono concentrati su chi svolge l’operazione. Viene rimosso il sigillo di stagnola e posizionata la punta del cavatappi al centro del turacciolo. La vite affonda nel sughero fino a perforarlo ed infine con lo sforzo di trazione necessario il tappo fuoriesce dal collo della bottiglia con un leggero schiocco. Il turacciolo viene estratto e annusato per verificare se presenta odore. Il nettare degli dei ora è pronto da servire e degustare.
Noi tutti siamo abituati ad utilizzare questo oggetto per stappare una bottiglia, è un gesto consueto ed automatico che ci permette di accedere ad uno dei piaceri della vita. Ma quando inizia quest’affascinante storia? Non è facile rispondere a questa domanda, ma possiamo fare delle ipotesi attendibili. Partiamo da due certezze: il cavatappi nasce per estrarre un tappo di sughero da un recipiente di vetro anche se non necessariamente da una bottiglia contenente vino. Il primo brevetto di un cavatappi risale al 1795, ed è dell’inglese Samuel Henshall. All’inizio del XVIII secolo il contenitore di vetro a bottiglia era un oggetto raro, costoso, fragile e dalla capacità non sempre uguale. In Italia sino al 1728 il commercio del vino in contenitori di vetro era vietato e uno dei motivi principali era dato dall’esigenza di opporsi alle frodi visto che la produzione allora artigianale, non consentiva di produrre bottiglie tra loro identiche e con la stessa capacità.
Fu infatti il regio decreto del 25 maggio 1728 ad autorizzarne la vendita e questo è legato alla comparsa di bottiglie più solide, provenienti dall’Inghilterra, del tipo detto “a vetro nero” che garantivano una omogeneità di capienza. Sino ad allora il commercio del vino avveniva in fusti e botti, la bottiglia e il boccale erano utilizzati solo per portare il vino dalle cantine alla tavola e queste stesse bottiglie erano tappate con pezzi di legno cui si avvolgeva attorno della canapa o della stoppa allo scopo di renderle sufficientemente ermetiche. In seguito si utilizzarono tappi di sughero che però oltrepassavano il collo della bottiglia ed erano di conseguenza facili da rimuovere. In sostanza l’imbottigliamento era considerato una operazione destinata a durare poche ore o pochi giorni.
Gli inglesi, paese di abili commercianti e navigatori, erano anche amanti del buon vino che importavano da Italia, Francia e Portogallo, nazioni produttrici anche di sughero. Quindi vetro, vino e tappi di sughero. Abbiamo quindi tutte le premesse per l’invenzione del cavatappi, ma a cosa ci si è ispirati per realizzarlo? La teoria più attendibile ci dice che esisteva allora un oggetto metallico dalla punta attorcigliata, semplice o doppia, che serviva da cavapallottole, attrezzo in uso già a partire dalla metà del XVII secolo. Contemporanea sembra essere anche l’invenzione dei cavatappi in miniatura, spesso in materiali preziosi, che avevano la funzione di permettere l’apertura di flaconcini e ampolle contenenti profumi, unguenti di bellezza e preparazioni farmaceutiche. Ecco la breve storia del tirabuscione, adattamento italiano del francese tire-bouchon, cavatappi, una parola in uso soprattutto nei secoli 18° e 19° che troviamo anche nel lemma piemontese tirabosson.