di Giorgio Cortese
In questi giorni sono entrato in un ufficio assicurativo e su di una scrivania faceva bella mostra una vecchia macchina da scrivere. E si, oggi la macchina da scrivere è ormai caduta in disuso, lasciando spazio a computer e tablet per diventare con in quella da me osservata oggetto d’arredo. La macchina da o “per” scrivere, uno strumento diffuso nel secolo scorso che nell’Ottocento prese la sua veste tipica, con i tasti corrispondenti alle lettere dell’alfabeto e collegati a martelletti che le imprimono tramite un nastro inchiostrato sul foglio adagiato su un rullo. Fu l’inventore statunitense Christopher Latham Sholes, nel 1868, a brevettare un rivoluzionario modello con tastiera Qwerty nome derivante dalla disposizione dei tasti delle prime sei lettere in alto a sinistra, analoga a quella attuale dei nostri computer. Fu ideata per facilitare la scrittura a due mani, distanziando opportunamente tra loro alcuni tasti. Il modello, immesso sul mercato nel 1874, si chiamava Sholes and Glidden, o Remington 1. Seguirono macchine sempre più evolute, ma prima di scoprirne gli sviluppi è interessante ripercorrere la loro storia fin dai prototipi.
Tra i pionieri della scrittura meccanica vi fu Francesco Rampazetto, tipografo attivo a Venezia che nel 1575 realizzò un telaio di legno con fissate assicelle mobili dotate di punte metalliche: queste, sfregando la carta, vi incidevano le lettere. Il congegno era pensato per i non vedenti, come altri strumenti simili nati in seguito, tra cui un marchingegno ideato nel 1802 dal conte Agostino Fantoni da Fivizzano e perfezionato dall’inventore Pellegrino Turri. I progetti sono andati perduti, ma sappiamo che sfruttava la carta carbone, o “copiativa”, sottilissima e con un lato inchiostrato, di cui lo stesso Turri è accreditato come inventore. Nel 1827 l’ingegnere Pietro Conti presentò invece il suo “tacheografo”, che imprimeva i caratteri alfabetici su carta tramite punzoni inchiostrati fissati a una tavoletta, mentre l’americano William Austin Burt realizzò nel 1829 il Typographer, scatola di legno con una bacchetta mobile, simile a quella di un giradischi, su cui fissare aghi e azionabile da una leva. Verso la metà del XIX secolo, un passo in avanti fu compiuto da Giuseppe Ravizza, padre del “cembalo scrivano”: come lo strumento musicale, aveva tasti bianchi e neri associati alle lettere in ordine alfabetico, impresse sul foglio grazie a un sistema di fili e bacchette d’ottone.
Nel primo modello, del 1846 ma brevettato nel 1855, i fogli non erano leggibili durante la scrittura, essendo disposti in orizzontale e celati dagli ingranaggi; poi si passò a una variante verticale. Strumenti simili furono creati dall’artigiano austriaco Peter Mitterhofer, mentre in Danimarca Rasmus Malling-Hansen stupì con una macchina dal design sferico. Presentata nel 1865, ma perfezionata fino al 1878, la “Hansen writing ball” era una palla di ottone su cui, a raggiera, erano disposti 52 tasti associati a lettere, numeri e altri segni grafici. A sorreggerla, un telaio metallico con alloggio ricurvo per i fogli, su cui battevano le bacchette collegate ai tasti. La svolta giunse però dall’America, grazie a Christopher Sholes e alla sua macchina con tastiera basata sulla disposizone QWERTY, del 1868. I diritti su questo progetto, elaborato da Sholes con altri colleghi tra cui Carlos Glidden, furono acquisiti nel 1873 dall’azienda E. Remington & Sons, produttrice di armi, che l’anno dopo mise in vendita la sua prima macchina da scrivere. I modelli concorrenti si ispirarono a loro volta alla Remington, imitandone la tastiera e il rullo per i fogli, fissato a un carrello che scattava lateralmente a ogni battuta, per lasciare spazio alla digitazione seguente. Sempre la Remington, con il Modello 2, introdusse nel 1878 il tasto “shift”, tuttora presente nei Pc, per modificare i caratteri da minuscoli a maiuscoli.
Poi, nel 1886, giunse il nastro inchiostratore a doppio colore, brevettato da George K. Anderson, da porre tra martelletti e foglio al posto della carta carbone, e nel 1899 apparve il primo apparecchio elettrico funzionante, dello statunitense Thaddeus Cahill, in cui i movimenti di tasti, carrello e nastro erano supportati da un elettromagnete, così da favorire la velocità di scrittura e alleggerire la pressione delle dita. Nel XX secolo le macchine da scrivere vissero il loro boom a partire dalla Underwood Number 5, lanciata nel 1900 dalla statunitense Underwood Typewriter, che offriva il meglio di ogni macchina prodotta fino ad allora. A consolidarne il successo fu lo sviluppo di versioni portatili, con corpo schiacciato, leggere e riponibili in valigetta. La prima, la Blick, risaliva al 1892, a brevettarla fu George Canfield Blickensderfer, da cui il nome, e consisteva in un tastierino, simile a una mano metallica, da adagiare sui fogli. Era invece una macchina completa di tutto la Olivetti MP1, efficiente portatile lanciata nel 1932 dalla nota azienda italiana e seguita da altri modelli celebri, come la Lettera 22, nata nel 1950, oggi al MoMA di New York, poi la sua eredità fu raccolta nel 1963 dalla Lettera 32.
Nel 1961 l’azienda americana Ibm lanciò la Selectric, macchina elettrica con una testina rotante sferica, simile a una palla da golf, su cui erano fissati i caratteri. Nel 1984, con i modelli Wheelwriter, Ibm offrirà anche la possibilità di stampare i fogli anziché inchiostrarli con le testine. Ma le componenti elettroniche stavano prendendo il sopravvento, segnando la fine di un pezzo di storia della scrittura e lasciando la macchina da scrivere vista in quell’ufficio un relitto del passato superato orami dalla rivoluzione di internet in corso. (Giorgio Cortese).